Regia di Janus Metz Pedersen vedi scheda film
Per capire quanto uno sport possa essere elitario basta prendere in considerazione tre parametri: che sia praticato singolarmente (la scherma) o in gruppo (il rugby), che abbia o meno una mediazione strumentale (la lotta greco-romana, per esempio, non ce l'ha) e che tenga o meno separati i corpi degli atleti (nel volley lo sono, nella pallacanestro no). Il tennis, al quale quarant'anni fa Giorgio Gaber dedicò l'omonima canzone al vetriolo, è uno di quegli sport ultraelitari (come il golf, il surf, lo sci, l'equitazione) per i quali, come diceva lo stesso Gaber "per essere bravi […] non è che bisogna essere proprio imbecilli, però aiuta" (stavolta il riferimento è a Gli inutili). Così, da Nando Cicero a Woody Allen, non si contano le centinaia e centinaia di film che lo mettono in scena. Borg McEnroe, di Janus Metz Pedersen, infittisce la lista andando a raccontare la sfida, davvero epocale, tra Björn Borg, l'asso svedese che tra Grande Slam e Wimbledon aveva polverizzato tutti i precedenti record di vittorie, e l'astro nascente del tennis statunitense, John McEnroe. Il ghiaccio e la fiamma: amatissimo il primo, detestato a causa delle sue continue e clownesche intemperanze sul rettangolo di gioco il secondo. Il film si concentra sulla finale che li vide rivali per la prima volta a Wimbledon, nel 1980, dove Borg giunse con quattro titoli consecutivi. Incentrato prevalentemente sulla figura dello scandinavo, il lungometraggio di Pedersen ne racconta anche l'infanzia e l'adolescenza (e qui l'interprete è proprio uno dei figli di Borg), il rapporto quasi filiale stabilito col mentore Lennart Bergelin (Skårsgard), il radicale cambiamento di modalità espressive (da giovane Borg sembra fosse vulcanico e iracondo come McEnroe), ma anche se non soprattutto la solitudine. D'altronde, che il ragazzo che abbandonò il tennis a soli 26 anni non avesse tutti i venerdì in ordine lo dimostra il matrimonio che ebbe qualche anno più tardi con Loredana Bertè. Da allora, tanta cocaina, la bancarotta, la vendita all'asta dei suoi trofei ma anche l'amicizia proprio con McEnroe (i due si fronteggiarono 14 volte: 7 vittorie a testa), che, nel frattempo, si era dato una regolata.
Lento, tendenzialmente verboso ed estetizzante nella prima parte, il film decolla nella seconda, rendendo palpitante il momento clou della finale di Wimbledon, tutta giocata sul filo di un equilibrio assoluto tra i due contendenti e metafora efficacissima di uno sport elegantissimo, "per gentiluomini", che è l'emblema dell'individualismo più parossistico.
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