Regia di Paul Wendkos vedi scheda film
Certo, George Kennedy non è Yul Brynner, ma la leggenda continua. Il terzo episodio sui sette magnifici pistoleri, girato come il precedente in Spagna anche se stavolta a La Pedriza di Manzanares El Real invece che al sud almeriense, ripropone il clichè collaudato del franchise anche egreggiamente, peccato che mette troppa carne al fuoco. Non solo l’affondo alla causa rivoluzionaria, ereditato dal coevo spaghetti-western, che già di per sé è ingombrante se deve vedersela con le modulazioni alla “magnifici sette”, ma anche una serie di personaggi fin troppo caratterizzati non fanno altro che buttare il sasso e togliere la mano. Il Nero, il Monco, il Tisico alla Doc Holliday, il Vecchio paterno che fa da chiocciola niente di meno che ad un piccolo Emiliano Zapata, sono tutti personaggi che sarebbe stato bello approfondire e rendere riflessi di un’azione narrativa precisa. Invece sono delle sagome cartonate appiccicate alla meno peggio su uno scenario trito e ritrito che né stanca né entusiasma.
Alcune idee e soluzioni visive sono interessanti come la tortura dei peones interrati fino alla testa, oppure qualche felice dialogo tra i tanti anonimi. Ma si vede come la fonte dell’originalità sia prosciugata. Il Mito di Yul Brynner, Steve McQueen, Charles Bronson ed altri s’era esaurito col primo episodio, intendendo bene come un sequel fosse un’idea malsana, mentre fertile sarebbe stata quella dell’idea originale dell’arruolamento di un gruppo di desesperados pronti a scontrarsi contro chiunque, motivo narrativo che influenzerà non poche pellicole post-’66, soprattutto in territorio spaghetti. Forse l’unica influenza originale americana dopo la nascita del western all’italiana. Per il resto è il nostro genere ad aver dettato modi, stili, tematiche ed estetiche non solo del western, ma di tutto il cinema che è seguito.
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