Regia di Joris Ivens, Marceline Loridan vedi scheda film
Testamento spirituale di uno dei maestri misconosciuti della Settima Arte, "Io e il vento" è un film libero e bizzarro. Sin dal titolo e dal fatto che protagonista è il regista stesso (e che la "trama" riguarda in realtà la vicenda personale dell'autore e del suo film), potrebbe apparire come un film narcisista. Invece si tratta di un'opera universale come poche altre: Joris Ivens, parlando del suo titanico e utopistico tentativo di "filmare il vento", parla anche di noi spettatori, sognatori, che entriamo in sala con l'auspicio di vedere immagini mai viste prima, scoprire mondi inesistenti, conoscere una natura e una cultura inedite, provare sensazioni impossibili da esperire nella realtà. "Io e il vento" è un film visionario, con splendide pagine oniriche, dettate dall'immaginazione autoriale, ma stimolate altresì dalla memoria cinefila (il sogno melies-iano del "viaggio nella luna"; spezzoni di vecchi film di Ivens). E' una fantasmagoria, che si muove tra Fellini e Tarkovskij, con la stralunata coralità del primo e l'afflato panteista del secondo. Il montaggio ci regala, specialmente nella prima parte, momenti di splendida poesia audio-visiva, attraverso spregiudicate associazioni. Ivens viene dal cinema muto, dalle grandi avanguardie degli anni 20, e si vede; nondimeno, utilizza il sonoro in maniera creativa, quasi mistica. L'attesa del vento da parte della troupe, accampata nel deserto, immersa in quell'atmosfera di sinistra calma, è uno dei momenti meno eclatanti di un film pieno di idee, invenzioni registiche, trovate figurative, ma in realtà racchiude un senso di sotterranea angoscia, frustrazione, consapevolezza del fallimento: arriverà mai il vento? e se arrivirà, riusciremo a filmarlo? e dopo averlo filmato, cosa avremo ottenuto? In definitiva, "Io e il vento" è un'abissale, ma fiera e pure ironica, riflessione sulla Morte: non solo quella della persona, ma anche quella del cinema. Da un lato, c'è la finitezza dell'esistenza biologica; dall'altra, avendo Ivens dedicato una vita alla Settima Arte, c'è anche la considerazione della sconfitta dell'idea di cinema come mezzo onnipotente di registrazione della realtà. Per Ivens, finto documentarista, la macchina da presa non può cogliere tutto ciò che si vede, nè ovviamente ciò che non si vede (il vento); può solo immaginare, inventare, trasfigurare. Il vento, per Ivens, non è altro che un motore creativo, che fa muovere le cose e genera immagini e suoni significanti: il cinema per Ivens, parafrasando Tarkovskij, è l'arte di scolpire il vento (creativo). In questa sua ultima, memorabile fatica, il regista olandese forse si è lasciato un po' dominare dalla furia del vento, e non è riuscito a scolpire al meglio la sua opera: alcuni passaggi, specie nella parte centrale, risultano tanto affascinanti quanto ridondanti e sfocati, come la "condensazione" in un'improbabile piazza di tutta la società cinese (contadini, operai, atleti, politici etc...). Ma ovviamente non è il caso di punzecchiare troppo il buon Joris, poichè (come dimostra il finale del film) era lui il primo ad essere consapevole del fatto che non si può battere, nè fermare, il vento della creazione immaginifica.
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