Regia di Robert Bresson vedi scheda film
Bresson ha amato molto il racconto, altrimenti non avrebbe potuto estrarne così bene il succo riconducendolo però alla sua personale visione: per lui infatti la sua eroina è mite e tiranno allo stesso tempo. Conseguentemente (e questo è il bello della sua lettura) il volerle bene significa accettare anche le sue responsabilità e le sue colpe.
“L’esistenza è un’anarchia del chiaroscuro: nulla si realizza totalmente in essa, mai nulla giunge a compimento; continuamente s’inseriscono nuove voci, che creano confusione, nel coro di quelle che già echeggiano”. (G. Lukács, L’anima e le forme)
Era a mio avviso inevitabile che Bresson dovesse incontrarsi prima o poi con Dostoevskij, e questo puntualmente avvenne nel 1969 con lo straordinario Une femme douce tratto dal racconto La mitescritto nel 1877. Permettetemi di citarlo con il suo titolo originale perché trovo orribilmente disturbante e banale quel sotteso e grottesco ammiccamento verso chissà quale (inesistente) lascivia inclinazione al voyeurismo che lasciava scioccamente intravedere quello che gli fu invece riservato qui in Italia dove per inciso l’opera arrivò con qualche anno di ritardo visto che fu distribuita soltanto nel 1972. L’incontro si ripeté di nuovo solo tre anni più tardi con l’altrettanto interessante Quatre nuits d’un rêveur (Quattro notti di un sognatore) tratto da un altro racconto del grande scrittore russo (Le notti bianche) al quale si era già ispirato qualche anno prima anche Lucino Visconti, ma questa volta a Bresson andò ancora peggio perchè da noi la pellicola non fu nemmeno distribuita in sala (miopia assoluta del nostro “sistema cinema” come si può ben dedurre) e si poté vedere – in anni in cui non esisteva ancora il web a fare da supporto – soltanto qualche tempo dopo ma solo in televisione.
Personalmente considero Une femme douce un titolo tutt’altro che di secondaria importanza (come fu invece valutato nell’immediato da una parte sia pure minoritaria, della critica ufficiale).
Lo ritengo infatti fondamentale (oserei dire quasi seminale) nel percorso evolutivo del regista (è da qui che comincia a sparire ogni residua traccia di “speranza” e prende invece forma in progressione il suo sconfortato pessimismo che diventerà tragico, agghiacciante ed assoluto, quasi cosmico ne Il diavolo probabilmente e nel successivo ancor più definitivo e desolato L’argent con cui concluderà splendidamente la sua carriera) oltre che una conferma del suo stile eccelso dove nulla è lasciato al caso.
E’ anche il suo primo approccio con il colore verso il quale il regista aveva nutrito fino a quel momento qualche titubanza (il colore è pericoloso perchè disperde, perché difficile da dominare. Solo il bianco e nero, in virtù della sua unità cromatica, permette di arrivare al fondo dello spettatore) ma che utilizzerà altrettanto magistralmente ottenendo risultati davvero non comuni grazie all’alternanza delle gradazioni tonali messe in campo e il gusto compositivo dei particolari che vengono così maggiormente portati in evidenza (un procedimento che troverà probabilmente la sua maggiore, compiuta espressione, nel successivo Lancelot du Lac, indubbiamente un film di rumori come lo definì Giorgio Tinazzi ma anche di insolite e dense “tinteggiature”, perfette per disegnare la polvere del terreno e il sudore dei cavalli) diventando a sua volta un elemento espressivo molto efficace: in Une femme douce - dice ancora Bresson ho curato il colore nello stesso modo in cui avrei usato il bianco e nero e credo insomma di essere riuscito alla fine a governarlo sfruttando la cromaticità della tavolozza a mia disposizione come avevo fatto in precedenza con le infinite sfumature che separano il bianco dal nero.[1]
Qui infatti il contrappunto fra i molti interni e i pochi scorci esterni, ha una sua geometria che si definisce proprio in virtù di quelle alternanze dei colori volute dal regista che si riflettono poi anche sui personaggi della storia, il tutto mediato dall’ambiente che circonda le loro figure atto a mostrare solo con pochi tratti e molte gradazioni, l’indifferenza della città, l’impossibilità di costruire rapporti (la scena al Jardin des plantes), la mortificazione degli improvvisi slanci di lei (l’uscita dal cinema), i pesanti e invalicabili silenzi che separano la coppia (il Bois), il supposto tradimento, la gita in campagna, i fiori gettati per terra o le riflessioni dell’uomo sul ponte della ferrovia rivestite di toni ben più cupi (non era pietà che provavo per lei, era un sentimento ben diverso, era come un entusiasmo indicibile).
Con Une femme douce nasce dunque (e si definisce) la prima opera “colorata” del regista giustamente dipinta con tinte chiare e umbratili e particolarmente attenta ad evitare i forti contrasti cromatici per non distrarre troppo l’occhio dello spettatore (René Prédal ) che sembrano voler rimandare (o per meglio dire fare un riferimento) alle teorie goethiane (un nome che ritornerà spesso in questa mia analisi a posteriori della pellicola) ma con qualche evidente differenza. Se infatti per lo scrittore tedesco i colori sono originati e prendono forma dal contrasto fra luce e oscurità, viceversa per Bresson essi servono principalmente per sottolineare il conflitto giansenista[2], materiale e spirituale, che riguarda le imperscrutabili forze del bene e del male che sempre si contrappongono e si danno battaglia nella vita che diventerà una costante delle sue successive fatiche.
“Avvicinate inabitualmente i corpi. Per catturare i movimenti più insensibili, più interiori”. (Robert Bresson).
Dopo ripetute visioni dell’opera (ci sto da tempo riflettendo sopra), mi sembra però di poter affermare senza alcuna ombra di dubbio che fra le mediazioni culturali utilizzate da Bresson per realizzare la pellicola, non ci sia solo Dostoevskij e il suo racconto, ma anche molto Goethe (non a caso vi si cita il Faust,[3] ) il cui riferimento più diretto rimanda però ad alcuni elementi centrali del romanzo Le affinità elettive, perché se vogliamo sintetizzare brevemente il tutto, anche Une femme douceè in fondo in fondo la tragedia di una impossibile “affinità elettiva” fra una donna e il suo compagno, e proprio in quella direzione, i tagli operati (o per meglio dire le modifiche apportate) rispetto al testo di partenza sono significativi a partire dalla “storia” pregressa dei due protagonisti ben presente in Dostoevskij, ma quasi inesistente nel film: per il regista infatti il passato è anche qui rimosso (o ridotto ai soli brevi accenni ai quali sarebbe davvero impossibile rinunciare) come quasi sempre accade in tutta la sua opera, perché anche quando affronta tematiche antiche queste finiscono però per essere coniugate nell’azione soltanto col (e sul) presente. Giorgio Tinazzi, grande studioso di Bresson, osserva giustamente infatti che a lui nelle storie che narra sullo schermo interessa più ciò “che non conta” – le marginalità le potremmo definire - che quello che invece ci sta dietro e le sviluppa. L’autore infatti opera quasi sempre sul piano dello scorcio e della riduzione a frammento, dell’ellissi, e solo in qualche caso (in controtendenza) opta per la dilatazione, un procedimento che probabilmente a lui serve proprio per far decantare azioni che sono solo apparentemente appiattite e che abbisognano necessariamente di un sia pur minimo approfondimento(e per rendere più chiara la sua tesi, cita appunto e giustamente proprio Une femme douce portando in primo piano (il “passato” che diventa “presente” appunto) le scene della visita al museo di storia naturale, a quello d’arte moderna e al Louvre con le loro “realistiche” astrazioni (le tele di Antoine Watteau, tanto per fare un esempio pratico) che sembrano persino portare fuori tema (e sono invece tutt’altro che superflue), dove sono di nuovo i particolari, i brevi scorci e persino i quadri visti e riprodotti con l’occhio freddo dello scienziato, a introdurre il tema della materialità della morte che troveremo poi scandito (o per meglio dire portato a compimento) nella parte conclusiva dell’approdo (la radicale scelta della nostra “eroina” senza nome a cui fornisce anima e corpo una sorprendente, giovanissima Dominique Sanda qui alla sua prima apparizione sullo schermo ma già perfettamente matura per rappresentare e “raccontare” inquietudini e pulsioni del complesso personaggio a lei affidato).
Nel film comunque non è secondario al concetto incombente della morte, nemmeno l’altrettanto costante riferimento all’erotismo (che crea un rapporto dialettico fra la coppia e la sua proiezione verso il mondo esterno) che corre lungo tutto il film fino a diventare una vera e propria marcia verso il suicidio dove l’odore della morte si mescola alle immagini erotiche che per una volta sono estremamente (e necessariamente) presenti anche in Bresson (René Prédal).
Dostoevskij e Goethe dunque, ma c’è pure dentro Shakespeare e il suo Amleto a far da corollario: “Dite le vostre battute a fior di labbra, come ve lo ho recitate io, se le urlate come fanno tanti nostri attori, preferirei affidare i miei testi al banditore… Nel torrente, nel vortice, nell’uragano delle passioni occorre sempre ottenere persino una certa dolcezza”. Lo avrete sicuramente riconosciuto il brano: sono i consigli dati da Amleto agli attori nella sequenza inserita nel film declamata davvero con un’enfasi un po’ sovratono, tanto che si potrebbe prendere a paradigma per sottolineare l’avversione al teatrale del regista (o per meglio dire all’uso “recitato” della parola) che serve indiscutibilmente a costruire un nuovo contrappunto interno per le implicazioni (di metodo e di risultato) che nella sua pellicola hanno le parole stesse (per come vengono dette fra silenzi e interlocuzioni) rispetto ai personaggi che le pronunciano (in Bresson la recitazione non è mai “affannata” ma fredda e razionale poichè anche la tensione viene trattenuta, attenuata, quando non addirittura del tutto dispersa nel suo virare verso una specie di “ritualizzazione” che ci potrebbe spingere a definire il tutto come una particolare forma di “antinaturalismo bressoniano” dentro a un’opera che ancora Tinazzi si azzarda a considerare prima di tutto un film della parola e della sua negazione (i “vuoti” e i “pieni” del dialogare insomma dove anche i silenzi contano e parecchio, soprattutto sullo schermo, poiché – lo dice proprio Bresson è il cinema sonoro che ha inventato il silenzio), ma anche di corpi, suggerisce dopo (e qui torna a puntino l’altra citazione che ho riportato all’inizio del capitolo) oltre che di movimenti interni.
Esattamente come indica e consiglia Amleto alla compagnia dei guitti chiamati a rappresentare la metafora della realtà dei fatti cruenti consumati dentro la reggia di Elsinore, lo stile del regista si appropria dunque del giusto mezzo (i corpi, i gesti e soprattutto il tono delle parole) per la sua altrettanto tragica rappresentazione degli avvenimenti, e lo fa con garbo, con ritegno e con misura (come chiosa saggiamente Maurizio del Ministro) utilizzando una specie di epico straniamento in cui il monologo prende sovente il posto del dialogo, che aiuta appunto a distanziare l’emotività dello spettatore da ciò che viene narrato sullo schermo.
Non è forse un monologo infatti anche l’inane parlare dei due, o ciò che l’uomo declama quasi sussurrando davanti al cadavere della sua sposa e alla domestica che osserva desolata e che resta sostanzialmente quasi muta per tutto il tempo, a far sì che il pubblico in sala nonostante la portata emotiva che potrebbe avere la meglio per le implicazioni romantiche e decadenti della situazione, invece di lasciarsi trasportare dalle emozioni viscerali, sia al contrario portato a privilegiare la riflessione lucidamente critica che solo l’estraniamento (sia pure di natura opposta rispetto a quello teorizzato da Brecht) può garantire, riguardo alla tetra visione pessimista della predestinazione e immodificabilità della condizione umana, che coinvolge e condiziona il percorso di vita di ciascuna persona?
“Che siano i sentimenti a spingere i fatti. Non viceversa”. (Robert Bresson)
Ritornando allora a ciò che dicevo prima a proposito di Goethe e del suo Le affinità elettive, riconducendo le due dolenti coppie di amanti del romanzo a un’unica inconciliabile coppia che ne rappresenta (e si fa carico) delle peculiarità discordanti di entrambe, il regista sembra voler ribadire che se la materia che compone gli esseri viventi è uguale per tutti, è invece l’architettura (se così vogliamo chiamarla) ad essere divergente ed è proprio questa divergenza a impedire l’amalgama fra i nostri due protagonisti che Bresson ci descrive magistralmente presentandoceli proprio come due nature talmente diverse da non avere nulla da condividere: lui è un uomo che dà molta importanza al denaro, all’oro (che la donna invece disprezza), né dimostra un minimo di interesse e sensibilità rispetto alle manifestazioni artistiche quali la musica, la pittura, la letteratura o il teatro che lei invece ama e priorizza (nella visita a Louvre a cui accennavo prima, lui le confessa addirittura di scorgere nelle Veneri che la moglie ammira così tanto, solo un mero strumento di piacere, così come plaude alla naturalistica e retorica rappresentazione di quell’Amleto di cui parlavo prima,che la consorte trova indegna), così come è interessato solo a convenzionali motivi musicali o alla soluzione di pagine enigmistiche; la donna al contrario è invece appassionata di musica sinfonica e libri di fisica, oltre a tutto quello che è già emerso prima..
Due estranei insomma che hanno il grave torto di ostinarsi a voler rimanere insieme ad ogni costo e nonostante il “malfunzionamento” di un rapporto che è indubbiamente la causa primaria del lento dimagrire interiormente (Maurizio del Ministro) di lei e del disagio ugualmente profondo di un uomo che evidentemente non è in grado di dare amore, né tantomeno di riceverlo.
I corpi perdono la propria unità e il rapporto con se stessi, se sono costretti dalla violenza o da qualche altra determinazione scriveva il romanziere, considerazione indubbiamente condivisa da Bresson che ci fa assistere a una tragica deriva consequenziale proprio all’avvenuta distruzione di quell’unità della persona e dei suoi elementi distintivi (cuore, sentimento, ragione) a causa di questo venir meno di un rapporto reale, il che genera nella donna un debilitante senso di umiliata prostrazione:e essendo lei il solo l’elemento ricettivo e reattivo della coppia è però anche l’unica a prendere coscienza attiva di quel vuoto che può essere a questo punto colmato soltanto con un estremo “rifiuto” totale e definitivo come il privarsi della vita.
Trasferita l’azione in una astratta Francia della contemporaneità (la Parigi degli anni ’60), il regista scruta i personaggi che non hanno nemmeno dei nomi (conosciamo solo quello della domestica che si chiama Anna) con il suo consueto stile scarno e la scrittura asciutta rigorosa e “morale” che ben conosciamo (e che non ha mai concesso nulla né alle esigenze del cinema spettacolare né allo spettatore).
Non è nelle sue intenzioni insomma quella di farne un’indagine “emotiva”, né tantomeno un semplice trattato psicologico, anche se la psicologia di cui ha provato a farne a meno, come scrisse giustamente Alberto Moravia a suo tempo, uscita dalla porta rientra poi dalla finestra e se ne trova – per fortuna – ancora molta nella pellicola, sia pure espressa in modo insolito e non convenzionale poiché invece che dai personaggi trasuda dagli oggetti, e da questi si espande – seppure non voluta né cercata - come una nebbia che avvolge tutto e tutti – spettatori compresi – nel renderli attivi e coscienti osservatori di questa piccola tragedia familiare che ha i toni dell’universalità.
La storia è presto detta: davanti al cadavere della giovanissima moglie suicida, un usuraio quarantenne – suo marito – fa l’esame di coscienza rievocando i suoi conflittuali rapporti coniugali.
La pellicola è dunque in sostanza quasi un lungo flash-back, ma svincolato dalle consuete leggi di rappresentazione di questo particolare modo di rievocare le cose attraverso il riavvolgimento all’indietro del nastro della vita. Qui infatti il metodo utilizzato da Bresson porta alla totale sottrazione del pathos, il che significa affrontare i nodi indubbiamente drammatici dell’azione puntando esclusivamente all’essenziale e alla concisa secchezza delle ellissi che volutamente smorzano la forza dell’impatto sul pubblico persino nei pochi incisi riservati alla vera e propria tragedia del suicidio giocati essenzialmente sulla luce e sul “colore” delle riprese. Tutto questo contribuisce a farne quasi una decantazione del perduto (ancora Tinazzi) dentro a una vicenda che già Dostoevskij nella sua breve introduzione alla novella, definisce racconto fantastico (…) ma realistico al più alto grado e dove i brevi accenni sul passato sembrano resi in apparenza persino più tangibilirispetto allo scrittore, anche se poi attraverso i discorsi fatti da Anna, si ritorna inesorabilmente sempre e soltanto al presente. E’ poi il commento fuori campo e i monologhi perfettamente supportati da un montaggio qui praticato esclusivamente (o quasi) con il particolare sistema prezioso il lavoro di quella che si potrebbe definire come una nuova e personale “rivoluzione della forma” messa in atto dal regista proprio a partire da questa pellicola rispetto a tutto ciò che aveva realizzato prima.
Probabilmente Bresson ha amato il racconto breve dostoevskiano poichè altrimenti non avrebbe saputo estrarne così bene il succo riconducendolo però alla sua personale visione delle cose, che è ugualmente corposa ma di differente grana e presenta una maggiore ambiguità di fondo (senza ovviamente nulla togliere alle complessità tematiche dell’originale). Per Bresson infatti la sua “eroina” è “mite” e “tiranno” allo stesso tempo, e di conseguenza per lui il volerle bene significa anche prendere atto delle sue responsabilità e delle sue colpe.
“Apri gli occhi, un attimo, un attimo soltanto!”
L’autore ha dunque calato i personaggi in una topografia di immagini e suoni che è una maligna e penosa discesa negli inferi del quotidiano dove lei è allo stesso tempo vittima innocente e complice di questo sposo, mefistofelico suo malgrado, (che ci fa meglio comprendere i riferimenti al Faust e a quel “verso” goethiano da me citato in precedenza) condannato ad essere una forza del “male” anche se vorrebbe fare il “bene” poiché a suo modo e anche se non ha saputo darle amore nè riconoscerne e accettarne le priorità, un po’ di tenerezza la avverte sicuramente verso la sua sposa, come conferma la disperata frase che pronuncerà davanti alla sua salma da me riportata in apertura del capitolo).
Fra i due, è però la donna la figura più complessa e sfaccettata(tanto da iscriversi a pieno titolo fra i personaggi femminili più densi e problematici di tutta la filmografia bressoniana). Il suo è un percorso esistenziale fatto di fallimenti, volontà e tensione, tra apertura, ricerca e predisposizione, tra disponibilità e refrattarietà, passività e provocazione. C’è comunque anche molta reattività in lei come si è già detto, che a volte si nasconde dietro la crosta di una neutralità (di pensiero, di azione) solo apparente (penso alla fisicità di certe sue reazioni, ai pochi sorrisi, all’abbraccio improvviso all’uscita dal cinema incurante dei passanti), come se avesse timore a mostrare tutta la profondità della sua anima, o avesse a sua volta paura dell’amore (“vorrei una cosa diversa” o anche “il vincolo del matrimonionon mi piace”).
Per questo spesso i gesti che lei compie, sono come scrutati o ripresi e registrati dai riflessi e non dalla fonte principale, come nella sequenza (filtrata attraverso lo specchio) di lei che si veste prima di andare a teatro (un tema, quello dello specchio, che torna spesso e diventa quasi una interazione ossessiva, prima del suicidio).
I particolari, dunque, ancora e sempre. Questo di Bresson è infatti anche un film che parla attraverso gli oggetti che sembrano emanati da un diverso disporsi architettonico della materia e che come ben aveva intuito Moravia, aiutano a raccontare la psicologia dei personaggi: per la nostra femme douce, lo fanno i libri e i dischi prediletti, i leggeri fiori appena recisi o un crocifisso non dimenticato; per l’uomo, la stadera che sembra soppesare avidamente non solo l’oro, ma gli stessi animi dei clienti (e forse anche la stessa moglie), il registro della contabilità, la lente o il dizionario per l’enigmistica.
Ed è per questo che le “intrusioni” esterne dentro gli spazi chiusi degli interni hanno una loro fondamentale ragione che intende creare una specie di “frizione” dissonante che passa attraverso le trasmissioni televisive che mostrano scene di guerra e di violenza nazista, una frastornante corsa automobilistica con i suoi assordanti suoni, o un concorso ippico col suo cupo rituale. La rappresentazione insomma dei suoni, del rumore, del movimento, dell’aggressività di un mondo esterno estraneo e disarmonico.
Gli oggetti sono statici per definizione ma in questo contesto per il necessario rapporto che si stabilisce e che si esplicita attraverso la loro allusiva presenza (se così vogliamo definirla) diventano dinamici, così come il dialogo secco ed essenziale che ha spesso solo una funzione “dichiarativa” nel suo rinunciare ad ogni possibile sottolineatura o accentuazione; e che talora è messo quasi in subordine (o in contraddizione) rispetto a ciò che mostra l’immagine..
Il diapason “catartico” in tale direzione, si raggiunge con l’inserimento all’interno dell’opera di alcune sequenze da Benjamin[4], (riguardo al quale il regista dichiarò a suo tempo: per Benjamin, si trattava di proiettare nella sala del cinema dove andava la mia protagonista, un film qualsiasi. La Parc-film e la Paramount, le case per cui lavoravo, erano anche i produttori e i distributori di quella pellicola, e questo se da una parte facilitava notevolmente le cose, fu una circostanza che colsi al volo perché con la sua “poetica” alla rovescia, piazzato a quel momento della storia con il libertinaggio del giovane protagonista che non si confaceva minimamente con la sensualità di Une femme douce, finiva addirittura per rendere più chiaro il mio discorso. Aveva indubbiamente colto nel segno poiché così davvero l’allusione diventa più scoperta proprio perchè la fatua figura di Benjamin e il suo libertinaggio adolescenziale (ancora Watteau e i ritratti alla Fragonard come riferimenti iconografici e musiche di Mozart, Boccherini, Rameau, e Haydn), sono sentiti da Bresson come ipocrita disimpegno dei sentimenti in netto contrasto con la dignità della sua eroina tentata dall’adulterio, non importa se consumato o meno, ma certo sentito (avvertito) come problematica etica (e forse anche come un “necessario” bisogno).
Se si accosta questo passaggio all’altro “forte”momento shakespeariano, ci rendiamo fdavvero meglio conto di come la “tragedia “qui stia soprattutto nei silenzi e nella normalità (nel “non detto” appunto) e che l’intento del regista è proprio quello di rendere evidente il falso della vita, la finzione. Ancora un gioco complesso di piani di lettura insomma nell’articolazione di un montaggio che consente una decantazione del continuum temporale, tra le persone e i piccoli brandelli di un passato solo marginalmente rivisitato.
A questo punto, non mi resta che da aggiungere qualche considerazione sul rapporto che il film ha con il racconto di partenza che viene rispettato soprattutto nel senso, ma dove sono poi evidenti molte variazioni. Se entrambi hanno un inizio simmetrico alla chiusura, in Dostoevskij si comincia però con un monologo (dove la morte è solo sottintesa) mentre Bresson preferisce invece incidere di più mettendoci da subito di fronte al fatto compiuto, e come tale sembra voler alzare la temperatura della struttura drammatica, che comunque viene raffreddata subito dopo da tutto ciò che è esposti nella restante pellicola.
Il regista, lasciando intatto il rapporto affermazione/umiliazione (sia pure un poco “depurato”) rende invece meno evidente il tema della “superiorità” dell’uomo rispetto alla ragazza molto più giovane di lui così perfettamente delineata nel racconto, sia come diversità tout court che come componente sociale (quell’ “averla tirata fuori dal fango” che spiega davvero molte cose).
Modifiche che fanno ancora una volta intendere come il luogo bressoniano non sia propriamente quello della psicologia. I sui personaggi hanno infatti la complessità della poliedricità ma sono al contempo anche segni di una dimensione che sta prima di loro. Per questo Une femme douce è prima che un film sui personaggi, un monologo sul tempo (Giorgio Tinazzi) che non lascia spazio a concessioni divaganti.
Persino la musica qui è sempre e solo interna all’azione tranne che in due scene dove è legata asincronicamente a ciò che viene mostrato dalle immagini (quella in cui si vedono le mani che firmano il registro di matrimonio mentre già si ode la musica della sequenza successiva, e l’altra dove la macchina da presa transitando dall’interno della casa, passa dal volto di lei morta che “aveva la passione della musica” a lei che, ancora viva, la stava davvero “percependo” quella musica), o si limita ad essere quella effettivamente ascoltata dagli stessi personaggi (Pourcel, Mozart, Jean Wiener), o ciò che arriva “dallo schermo nello schermo” (le musiche di Benjamin), o accompagnano in sottofondo la recita di Amleto.
Come sempre in Bresson, la soggettività viene insomma raggiunta attraverso una oggettività che rifiuta la tentazione della spiegazione, e il rapporto non è certo di giustapposizione, ma di tensione, tutto concentrato sull’utilizzazione anomala del tempo come un elemento (anche “drammatico”) tipicamente cinematografico e quindi come tale, con frequentissime insistenze, reiterazioni e alterazioni rispetto a quello reale.
Il tempo drammatico insomma e la sua applicazione come elemento tipicamente cinematografico che porta Bresson a scoprirne il movimento ‘interno’ tramite insistenze o iterazioni (potrebbe sembrare un paradosso, ma spesso in Bresson – dialetticamente - la soggettività viene raggiunta attraverso l’oggettività).
La spietata freddezza del particolare finale (il bullone che sigilla la cassa molti anni prima di quella altrettanto insostenibile chiusura della bara ne La stanza del figlio di Moretti), quel pugno di sangue di cui parla Dostoevskij,. conclude magistralmente questo “grande” film.
[1] Susan Sontang aveva scritto nel 1964: “E’ quasi impossibile immaginare un film di Bresson a colori”. Eppure si può dire che anche i film precedenti a Une femme douce, proprio perché volti ad articolare le tensioni del bianco e del nero, erano per paradosso dei potenziali film a colori: il rapporto delle immagini, la loro interazione e trasformazione avevano infatti sullo sfondo l’analogia delle leggi di “movimento” del colore, la sua capacità costruttiva. Il regista aveva dunque già allora razionalmente presente questo rapporto tra creazione e modificazione. (Giorgio Tinazzi)
[2] Ricordo che il giansenismo è una dottrina teologica elaborata nel XVII secolo da Giansenio (1585-1638) che tentò di modificare l’idea stessa del cattolicesimo fondando la sua personale costruzione ideologica sull’idea che l’uomo nasce essenzialmente corrotto (e conseguentemente destinato a fare il male perché senza l’ausilio della Grazia di Dio non dispensata a tutti, chi da questa non è toccato, è inesorabilmente destinato a peccare ed è di conseguenza predestinato alla dannazione eterna).
[3] Le parole sono quelle pronunciate da Mefistofele quando si presenta a Faust, che in Dostoevskij – in totale rispetto a ciò che scrisse Goethe, suonano più o meno così: io sono parte di quella parte del tutto che vuol fare il male, ma fa il bene e che nel film di Bresson diventano invece : io sono parte di quella forza che a volte vuol fare il male / a volte vuol fare il bene.
[4] Benjamin, ou le memoires d’un puceau (Benjamin, ovvero le avventure di un adolescente per noi in Italia), regia di Michel Deville (1968), interpretato da Pierre Clementi, Catherine Deneuve, Michel Piccoli e Michèle Morgan
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