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Caruso Pascoski (di padre polacco)

Regia di Francesco Nuti vedi scheda film

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La recensione su Caruso Pascoski (di padre polacco)

di Stefano L
8 stelle

Alberi fascisti a Roma: il surreale dibattito in una città diventata la  parodia di Caruso Pascoski

 

Opera omnia del compianto Francesco Nuti, “Caruso Pascoski di padre polacco” traccia forse il lavoro meglio riuscito nel momento fertile del suo stoico percorso artistico. Una storia tipicamente borghese in un’opulenta Italia socialista, la quale segue la ricostruzione delle ragioni inducenti alla condizione depressiva di Caruso: uno psicanalista abbandonato dalla coniuge che passa le giornate fra le terapie di pazienti deliranti e ubriacature frequenti. Alla fine di una delle udienze per il divorzio l’ex moglie rivela che si sente ancora attratta da lui; quando verrà a galla la bislacca origine della separazione, Pascoski cerca di riconquistarla nei modi più rischiosi e improbabili. Nuti trova la quadra nell’amalgama dei registri preordinati, optando verso un racconto in prima persona che, partendo dagli assilli infantili, congiunge agiatamente l’autoironia sulla recrudescenza del distacco e l’isolamento con la vivacità estrosa e leggerezza di tocco distintive nella sua cifra stilistica. Il divertissement sui generis volteggia attorno al dilemma dell’approvazione (e il rifiuto) di un mutamento esistenziale cruciale, il quale necessita il sacrificio di rinunciare ad abitudini e “dissolutezze” consolidate nelle risacche di una routine accomodante; un passaggio drastico, lustrale, adatto a bilanciare trasporti sentimentali e passioni morbose, diventate ormai patologiche. L’autore toscano, mantenendo la mano ferma, foraggia affabulazioni e svolazzi onirici (ossia, le sedute “apicali” a cui assiste inerme), introiettando nel mucchio delle eccentricità il già collaudato humor disinibito (impeccabile in mimica e inflessioni di battuta) che, senza varcare i confini della volgarità gratuita, eroga nuovamente scenari dissacratori e stornelli “licenziosi” (quel “narcisismo” tanto declamato dalla critica istituzionale) in contrapposizione al moralismo e il puritanesimo dilaganti nell’humus di una società estremamente pudibonda e patriarcale. Inerpicandosi su un terreno scosceso tenta di raggiungere una sorta di panacèa, un luogo non definito ove ristabilire la quiete matrimoniale, e lo fa manifestando una totale libertà allegorica nel ritrarre contesti paradossali, diretti a crogiolare il pubblico attraverso dialoghi sfacciati e riprese dense di lirismo introspettivo, in un vortice rimorchiante di malinconia e parossismo. Non che la sceneggiatura sia perfetta (al secondo giro, il bacino al maresciallo sfianca un pochetto) però la confezione può finalmente vantare di un risalto figurativo superiore al divertentissimo ma tecnicamente “rustico” “Madonna che silenzio c'è stasera”, di cui questo film ne è una versione organicamente “riveduta e corretta”, caratterizzata inoltre da musiche distese in misura omogenea, ideali a raccordare i transiti narrativi. La compagnia di interpreti, concludendo, include presenze indovinate come Novello Novelli, Antonio Petrocelli (il permaloso amico avvocato) e Ricky Tognazzi (l’omosessuale “incerto”, personaggio centrale di una sotto-vicenda tutt'altro che pedestre o trivializzata alla maniera vanziniana). E Clarissa Burt (Giulia)? Una partecipazione fisica funzionale benché (probabilmente a causa del doppiaggio troppo artificioso) non all’altezza del geniale istrione fiancheggiato (anche in privato, a quanto pare).

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