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Finché c'è prosecco c'è speranza

Regia di Antonio Padovan vedi scheda film

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La recensione su Finché c'è prosecco c'è speranza

di alan smithee
7 stelle

Tra le colline del trevigiano, tra Vittorio Veneto e Valdobbiadene, “miniere d’oro” tradizionalmente e storicamente dedicate alla coltura di vitigni da prosecco, un celebre proprietario terriero, conosciuto ed apprezzato per il suo prodotto sopraffino, ma pure per suo atteggiamento tradizionalmente rispettoso e grato nei confronti di una terra madre che va sfruttata, ma non abusata, viene ritrovato morto su una lapide del cimitero del paese. Che si tratti di suicidio è palese sin da subito.

Molto più inquietante è il fatto che, poco dopo il suicidio, una serie di esponenti di spicco di quei posti, tutti a loro modo venuti a male parole col morto, vengono ritrovati uccisi a revolverate. E l’assassino che potrebbe calzare a pennello meglio di chiunque altro, sarebbe proprio il morto.

A cercare di risolvere le complicate indagini, il pensionando e piuttosto svogliato capo della polizia incarica il pingue neo-ispettore Stucky, oriundo del posto, almeno per metà.

Un uomo che sa calarsi molto bene nei pensieri che animano le genti del posto, fino a scoprire delle losche connessioni tra un vicino e certo fuori luogo cementificio, alcune speculazioni da parte di corrotti esponenti locali, e una moria di popolazione a causa della cosiddetta implacabile “ruggine”, che si porta inevitabilmente con sé molte anime, spesso in modo indiscriminato e prematuro.

Sin dal brillante e divertente titolo, l’opera prima di Antonio Padovan si fa voler bene già a priori, e regala allo spettatore uno studio piuttosto riuscito di caratteri, contesti sociali locali, tradizione che evitano anche con studiata scaltrezza una eccessiva “folklorizzazione” del contesto, senza tuttavia dimenticarsi delle proprie affascinanti radici.

E del concetto molto serio, che il film tuttavia ha il pregio di denunciare con fermezza, ma senza fastidiosa enfasi, che la natura ci accoglie e nutre, ma merita rispetto quando la si sfrutta, tanto più quando da essa si riesce a trarne un vantaggio che va ben oltre la mera sussistenza.

Ed il giallo, che è in grado di tener desta l’attenzione quasi sino al suo finale – invero un po’ troppo coordinato a caso, troppo “tirato a sorte”, che impedisce allo spettatore anche più perspicace di seguire e dare soddisfazione ad una propria pista di indagine (cosa che dovrebbe essere fondamentale in un giallo tipico) – si fa forza della valida caratterizzazione dei propri personaggi: dal protagonista ispettore, al coro di altri tasselli che gli si parano dinanzi: tutti sostenuti dal carisma contagioso dei propri interpreti, tra cui giganteggia, ovviamente, Giuseppe Battiston, che disegna un personaggio felice quasi come accadeva in Zoran.

Ma non meno preziosi si rivelano Teco Celio, lo scemo del villaggio che tuttavia, nella sua sconsiderata semplicità, sa molte più cose di quanto si potrebbe immaginare; Roberto Citran, un capo della polizia prudente e timoroso di cacciarsi nei guai proprio nei mesi che precedono il suo agognato congedo; o il sempre fascinoso e “intellettualmente muscolare” attore croato Rade Serbedzija, molto in parte nel ruolo chiave del “conte” suicida, ed ormai abituato a prender parte a progetti – spesso felici come questo – nel nostro paese.

E diversi altri attori, anche solo in ruoli cameo, utilissimi a caratterizzare personaggi minori, certo, ma importanti a tradurre la particolare prevalenza del territorio sul comportamento della comunità, riuscendo tuttavia ad evitare eccessivi campanilismi o fastidiose forzature.

Questo è un cinema legato al territorio che ci piace, e che apprezziamo quasi quanto quell’indimenticato e già citato gioiellino che fu “Zoran, mio nipote scemo”.

 

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