Regia di Antonio Padovan vedi scheda film
Giallo, con bollicine.
Una sfida vinta, quella di produttori (la K+) e autori di Finché c'è prosecco c'è speranza: non solo nel porsi, fieramente, al di fuori delle consuete rotte geografiche della cinematografia nazionale, ma anche nel proporre, ardire, un genere – il giallo – oramai relegato da tempo al piccolo schermo (tra preti, forestali, figure e animali vari, tutti nel solco di una confezione piatta e innocuamente televisiva).
Tratto dal romanzo omonimo di Fulvio Ervas (2010, edizioni Marcos Y Marcos), qui in veste di co-sceneggiatore, l'opera di debutto nel lungo del giovane Antonio Padovan si caratterizza per una freschezza e una vitalità salvifiche, frizzanti.
Un sorso – invero, molti … – di prezioso paglierino da godere con la soddisfazione e la consapevolezza della qualità delle cose semplici e di alta qualità: all'alta tracciabilità del prodotto corrispondono sincera applicazione e sano gusto per la materia filmica.
Un'opera sì, evidentemente, legata in maniera forte e piena al “territorio” – termine abusato e svuotato di significati concreti, dal momento in cui ce se ne è appropriati per biechi motivi di opportunismo politico –, peraltro ben fotografato dal veronese Massimo Moschin (che per questo ha vinto un premio al Cape Town International Film Market & Festival da poco concluso), ma in grado di tradurlo in atto concreto e funzionale, sostanziale.
Se testo e forma propendono al poliziesco all'italiana – inequivocabile la locandina che rimanda all'immortale collana Mondadori – l'ambientazione, tra le splendide colline e antichi casati del Prosecco (location Conegliano, Treviso, Valdobbiadene, Farra di Soligo), trascende a espressione identitaria, a paesaggio dell'animo (veneto, italiano, umano).
Un personaggio estremamente affascinante e complesso, claudicante e ferito, proprio come il conte Ancillotto, fierissimo produttore di vino legato alla terra, interpretato da Rade Serbedzija (già indimenticabile “poeta” nel bellissimo Io sono Li di Andrea Segre); capace di mostrare – e mostrarsi – tanto la superba bellezza quanto gli sfregi fisici e interiori.
In filigrana, infatti – ma solo apparentemente: i sottotesti sono fragranti note di fondo, persistenti dopo il passaggio dell'amabile sostanza principale, – questioni sentite e controverse, oggetto di quotidiana battaglia sociale e politica: quella dell'immigrazione/integrazione (non a caso il protagonista, Stucky, è per metà di origine persiana) e le brutte faccende inerenti lo sfruttamento del territorio.
Da una parte l'iper-produzione vitivinicola, con prezzi alle stelle e conseguente perdita di antichi, genuini valori; dall'altra, innanzitutto, l'infausta presenza, con immancabili coperture in “alto”, dei grossi organismi industriali che rigettano a ciclo continuo nella natura circostante veleni e gas tossici (l'affaire-Pfas è una tristissima realtà proprio delle province venete, tra Vicenza e Verona).
Ma il giallo esige il suo peculiare percorso: un'assunzione piacevole e piacevolmente familiare, leggera e consistente, che lascia fragranti sensazioni di appagamento. Una storia innescata da un suicidio eccellente (il conte Ancillotto, figura discussa ma anche amata, in perenne lotta con loschi “colleghi” della confraternita del Prosecco) seguita da omicidi altrettanto clamorosi e plateali.
Un classico.
E un neo-ispettore – il corpulento Stucky (Giuseppe Battiston, in formissima) – a cui spetta il compito di trovare un filo comune, sbrogliare la scottante matassa, svuotare la bottiglia di segreti e bugie, connivenze e omertà.
L'intreccio ha una sua rassicurante strada, tra personaggi sui generis (non mancano lo scemo del villaggio, interpretato da Teco Celio, il superiore cinico – Roberto Citran –, la forestiera, la governante, la giovane amante …), contesti piccoli e (rac)chiusi e colpi di scena architettati con semplicità e gusto.
Sebbene, va detto, lo scafato giallista intuirà anzitempo il colpevole: un istante preciso, infatti, è ingenuamente troppo rivelatore (un'inquadratura su un dettaglio che dura un secondo di troppo seguita da scambio di battute), ma è un gioco a cui ci si presta volentieri, una bevuta in compagnia a cui non si può rinunciare.
Anche in virtù di una gestione del ritmo e dei tempi impeccabile, e di un'azzeccata, ottimamente dosata, brezza di commedia che dona ancora maggior sapore e solidità, credibilità: insomma, niente situazioni da farsa conclamata né “caciaroneria” diffusa.
Solo garbati spirito e attitudine, caratterizzanti sia di un'identità sentita e inconfondibile che di un'ironia pregna, pungente ma mai invadente.
Come le note di una colonna sonora – tra gli altri, di Teho Teardo – raffinata e coinvolgente, che accompagna la visione di un'opera “piccola” che delizia (e causa dipendenza).
Proprio come un calice di ottimo Prosecco.
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