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Life - Non oltrepassare il limite

Regia di Daniel Espinosa vedi scheda film

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La recensione su Life - Non oltrepassare il limite

di supadany
7 stelle

Niente di nuovo dall’ignoto spazio profondo. Eppure, questo remake apocrifo di Alien è conscio della sua dimensione senza sbocchi, crea un dinamico gioco del gatto con il topo e ricorda quanto l’essere umano sia biecamente portato alla sua stessa distruzione. Vediamo nascere il male e ne rimaniamo ammaliati. Il nostro de profundis.

Alla sua terza prova americana, lo svedese, ma di origini cilene, Daniel Espinosa prosegue il suo percorso nel nome della diversificazione, che continua a portargli fortune alterne: gran bel successo con Safe house – Nessuno è al sicuro e un generale disinteresse per il più sentito Child 44.

Con Life, conferma di avere un buon grado di professionalità – assecondato dall’iperattivo direttore della fotografia Seamus McGarvey (Animali notturni The accountant, rimanendo ancorati alla sua attività recente) - messa al servizio di una sceneggiatura di origine derivativa, in sottrazione in fatto di qualità, firmata da Rheet Reese e Paul Wernick, privi del medesimo istinto inventivo che avevano manifestato scrivendo Deadpool.

In una stazione spaziale, un team internazionale, che annovera tra gli altri l’ufficiale Miranda North (Rebecca Ferguson), l’ingegnere Roy Adams (Ryan Reynolds) e David Jordan (Jake Gyllenhall), recupera una sonda proveniente da Marte.

Al suo interno, scoprono la presenza di una minuscola forma di vita che, in breve tempo, cresce e, sfruttando alcune leggerezze, diventa ostile, riuscendo a superare ogni interposta barriera di sicurezza. Per salvarsi e successivamente rientrare sulla Terra, dovranno eliminare la creatura dotata però di un istinto e una resistenza tali da rendere ardua ogni azione di contenimento.

 

Alexandre Nguyen

Life - Non oltrepassare il limite (2017): Alexandre Nguyen

 

Dall’ignoto spazio profondo, niente di nuovo. Fortunatamente, è lo stesso film a esserne cosciente, avendo l’umiltà di rimanere circoscritto, rimodulando altre space opera con riverenza, perdendone le migliori qualità, ma anche difendendosi con il coltello tra i denti.

A dire la verità, il preludio promette qualcosa di più: un piano sequenza, non tanto complicato ma calcolato nei movimenti, fluttuanti ed esplorativi, che conduce direttamente ai titoli di testa. È comunque uno specchio per le allodole siccome la reale dimensione di Life è un’altra, ovvero quella di un b-movie gonfiato (58 milioni di dollari non saranno una cifra enorme ma non sono nemmeno uno scherzo), prettamente tecnico e parzialmente tensivo, che ricorda da vicino soprattutto Alien, risultandone una sorta di remake apocrifo.

Rispetto al capodopera diretto da Ridley Scott, avviene tutto in tono minore: non si tratta più di fatalità incontrollabile, almeno non solo, ma più di curiosità, comunque parzialmente giustificata dal fascino della scoperta senza precedenti, più consona a dei dilettanti che a degli scienziati accuratamente scelti.

In più, i caratteri in gioco sono selezionati avendo cura di inserire un po’ di tutto, sia come origini etniche sia comportamentali, ma nonostante approssimazione varie, l’impianto ricondotto nella sua dimensione di pericolo funziona egregiamente.

Lo fa perseguendo le leggi universali della natura, la fascinazione che porta dalla gioia della rivelazione alla morte, calando presto l’asso del pericolo sempre più impellente e preferendo il fattore umano sul resto.

Insomma, l’uomo va alla conquista dell’universo, commettendo gli errori di sempre, dimostrandosi fermo a un gradino dell’evoluzione inferiore, condannato dal suo stolto e fallace senso di sicurezza e superiorità, che impedisce di calcolare scientificamente un probabile rischio, mettendo a repentaglio la vita senza averne la consapevolezza.

Lo scenario emana una tensione sufficiente, spesso ottenuta tramite sotterfugi, limitando il superfluo, con dialoghi d’intermezzo poco evoluti, evitando comunque di apporre sermoni insopportabili, a favore della concitazione per la ricerca di una soluzione a una domanda di salvezza che diventa sempre più insondabile.

Seguendo queste direttive, nasce un ibrido tra b-movie e grande produzione usa e getta, che non valorizza appieno il materiale umano (Jake Gyllenhall, Rebecca Ferguson e Ryan Reynolds sono tutt’altro che spremuti, ma rispettano i patti con abnegazione), usato come merce da dare in pegno al pubblico, più che adeguato come forma d’intrattenimento basilare, consapevole dei propri limiti al punto di nutrirsene, eccetto che nel finale, a effetto ma troppo adagiato e guidato su paure collettive, con un ricettario ben disposto sulla falsariga del gioco del gatto con il topo, sfruttando i sempre floridi principi legati alla sopravvivenza e una serietà tecnica sopra la media.

A carte scoperte, con leggerezze mal riposte, buon senso del dinamismo e capacità di attecchimento su paure conclamate.

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