Regia di Jonas Åkerlund vedi scheda film
Ricostruzione molto libera di un movimento ispirato alla musica più estrema che saltò agli onori della cronaca tra la fine degli anni 80 e l'inizio dei 90 non per meriti artistici ma per una serie di eventi criminosi.
Tutto inizia in Norvegia, nel 1984. A Oslo un gruppo di adolescenti è affascinato oltre misura dall’heavy metal più estremo, che aveva mosso i suoi passi qualche anno prima in terra britannica grazie a una band chiamata Venom, e che da lì si diffonde come un virus malsano in tutta l’Europa.
Uno di questi, Øystein Aarseth, si distingue per spirito di iniziativa, fonda una band, una casa discografica e persino una sorta di setta criminale, l’inner circle, che sarà la base per una serie di nefandezze (omicidi, devastazioni di monumenti, suicidi ma anche regolamenti di conti cruenti all’interno del “circolo”) che porteranno il movimento all’attenzione del mondo purtroppo non per meriti musicali.
Questa la storia ad amplissime linee, una storia in realtà complessa, controversa, attraversata da una pletora di personaggi che sembravano usciti da un manicomio o da un film horror, e invece tutti terribilmente reali. Una storia che merita di essere approfondita ben oltre queste poche note che sono servite ad introdurre il film di cui si parla in questa recensione.
Su questa vicenda sono stati scritti anche dei libri e da uno di questi, forse il più celebre di sicuro non l’unico, Lord of Chaos: The Bloody Rise of the Satanic Metal Underground (firmato da Michael Moynihan e Didrik Søderlind) è stata tratta questa pellicola omonima.
A dirigere il tutto Jonas Åkerlund, svedese, autore di videoclip per numerosi artisti di fama internazionale ma anche, e in questo frangente soprattutto, batterista della prima formazione dei Bathory, forse la prima band a suonare black metal in territorio scandinavo.
Con un simile background c’erano insomma tutti i presupposti per sperare in un risultato in linea con le aspettative che un simile materiale non poteva non ingenerare; non tutto però è filato liscio ma andiamo con ordine.
Le vicende come già spiegato in apertura di recensione erano numerose, complesse e intrecciate fra di loro in maniera spesso caotica (cosa anticipata dal titolo, verrebbe da dire) e quindi giocoforza il regista ha dovuto ricorrere a semplificazioni. Quindi chi pensa a un documentario con ricostruzioni dei fatti aderenti alla realtà farebbe bene a calare le aspettative.
Di questa poca fedeltà ne trae beneficio la narrazione della vicenda che si rivela abbastanza scorrevole. Protagonista della storia è la band dei Mayehm e in particolare il fondatore e chitarrista, Euronymus, ovvero il sopra citato Øystein Aarseth. Buona la scelta di farlo interpretare da Rory Culkin (fratello del più noto Macaulay) piuttosto credibile nel ruolo del ragazzotto presuntuoso che cerca di spiccare nella massa con atteggiamenti provocatori e blasfemi.
Il suo personaggioappare subito “costruito”, uno che non crede davvero in satanismo e neopaganesimo e altre amenità simili (tra l’altro: satanismo e neo paganesimo sono due cose non solo totalmente differenti ma pure incompatibili. Satana è la personificazione del male supremo nel cristianesimo, cosa c’entri con Odino e Thor non credo lo sappia nessuno) ma cerca piuttosto metodi scioccanti per attirare l’attenzione degli altri.
La svolta di qualità in questa discesa nel delirio avviene con l’arrivo nella band di un ragazzo svedese, Per "Pelle" Yngve Ohlin, personaggio problematico affetto probabilmente dalla sindrome di Cotard (ovvero la convinzione di essere già morto), cantante molto scenografico e autore durante i concerti di gesti in bilico tra il disgusto e la follia che daranno un’impronta ancora più malata all’immagine dei Mayehm.
Dead (questo il soprannome scelto da Ohlin) è attratto in maniera morbosa dalla morte e questo gli sarà fatale: in una delle scene più drammatiche si suicida, prima cercando di svenarsi e di sgozzarsi e poi sparandosi un colpo alla testa.
Euronymus è il primo ad arrivare sul luogo della tragedia, ma anziché chiamare la polizia si prodiga in una serie di scatti fino a rubare alcuni frammenti della scatola cranica del defunto per farne amuleti.
A scherzare col diavolo però si finisce per sentire davvero l’odore di zolfo, e in questo caso per incontrare la malvagità reale. Dalla provincia più remota arriva Kristian “Varg” Vikernes, musicista dietro il nome di Burzum ma soprattutto uno che sotto un aspetto goffo e impacciato nasconde un’anima veramente nera.
Se per Euronymus tutto il baraccone del black metal è una spacconata che dovrebbe in fondo restare innocua (nella drammatica scena finale della resa dei conti dirà a Vikernes “io sono uno che parla, parla, ma non faccio mai nulla”) per Burzum è tutto tremendamente serio. E lui, che non beve alcol e non fa uso di droghe (evidentemente non ne aveva bisogno) passa all’azione, bruciando chiese (il cristianesimo ha per lui la terribile colpa di aver spodestato la vera religione dei vichinghi) e ispirando eventi criminosi, fino a scontrarsi con il leader e alla inevitabilmente tragica conclusione.
Come detto la storia viene narrata in maniera scorrevole e il film si rivela interessante, pur con tutte le sue libertà, per lo spaccato che riesce a fornire allospettatore di un movimento che, partito dalla musica, è diventato una filosofia di vita deviata e malvagia.
Tuttavia nel tentativo di rendere la storia più accattivante si inseriscono elementi di assoluta fantasia che non hanno alcuna attinenza con la realtà: Nel finale il "povero" Euronymus dimostra il suo lato più umano e sembra quasi rendersi conto di averne combinate anche troppe, sembra cercare una strada nuova con l’aiuto della fidanzata. Insomma l’elemento “buono” cui si contrappone il “malvagio” ovvero Burzum. Tutto questo è ovviamente una invenzione del regista e rischia di dare una visione falsata dei fatti.
Altra nota: se Rory Culkin riesce a dare come detto il giusto spessore al personaggio di Euronymus, lo stesso non si può dire di Emory Cohen che veste i panni di Varg Vikernes. Questo all’inizio riesce persino a catturare la simpatia dello spettatore, appare un adolescente di provincia, astemio e con la testa piena di ideali bizzarri in balia di una banda di ragazzi più grandi fuori di testa. Ma la sua metamorfosi è repentina, anche troppo, e in battibaleno diventa quello psicopatico che porterà alla degenerazione definitiva dell’inner circle. Questo passaggio mal gestito è uno dei punti deboli del film di Åkerlund.
Ultima osservazione: la musica, che non riesce mai a diventare la vera protagonista. Qui il regista in parte è giustificato dai problemi avuti per la concessione dei diritti sulle canzoni, ma all’aspetto musicale è dato un ruolo che appare marginale; il che per un film che parla di un movimento musicale, sia pure con tutte le particolarità sopra esposte, non è un grande merito. Salva parzialmente il tutto la scelta di usare i Sigur Ros per il commento musicale (non c’entrano nulla col black metal ma sono una band di altissimo livello).
Nel complesso un film tutto sommato godibile che va preso però per quello che è, ovvero una ricostruzione molto libera e piena di “licenze poetiche” (chiamiamole così).
Sufficienza piena con mezzo punto in più per il finale dotato di un tocco di inaspettata ironia.
Nota finale: sembra che le sinistre vicende del black metal scandinavo così come narrate dal libro di Moynihan e Søderlind avessero attirato l'attenzione di Sion Sono che aveva in progetto di ricavarne un film. Viene da domandarsi cosa avrebbe potuto regalarci un regista di tale levatura alle prese con questa storia.
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