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Baby Driver - Il genio della fuga

Regia di Edgar Wright vedi scheda film

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La recensione su Baby Driver - Il genio della fuga

di mck
7 stelle

Bruuumm! Bruuumm! E poco altro. Ma finché ce n'è, ce n'è.

 

 

Prima di tornare ai fasti (non furiosi, né veloci), vale a dire alla compiutezza, di “Shaun of the Dead” e di “Scott Pilgrim vs. the World”, superandoli (se pur, a conti fatti, soltanto nelle intenzioni, e parzialmente), con “Last Night on Soho” (che può essere considerato, con tutti i suoi coppoliani meriti e pregi e i suoi argentiani limiti e difetti, quale la conferma di un restart di carriera, e non solamente perché non vi compare - come del resto era già avvenuto col film precedente, cioè questo - alcuno degli attori storici che avevano lavorato almeno un paio di volte con lui in passato), Edgar Wright, dopo aver chiuso la Trilogia del Cornetto licenziando l’ultimo tassello, “the World’s End”, il cui gusto/aroma/sapore di mezzo fu “Hot Fuzz”, gira questo scherzo (è un po’ il suo “Speed Racer”, se mi si passa l’iperbole, e contiene più canzoni in colonna sonora - una per tutte, la "New Orleans Instrumental No. 1" dei R.E.M., da "Automatic for the People", messa a tradimento durante una scena di abbandono consensuale - di quante ve ne siano nella sixsties-opera con Anya Taylor-Joy e Thomasin McKenzie, e in entrambi nessuna degli Sparks!, del resto impegnati con Leos Carax per “Annette”) che, per ¾, regge persino dal PdV contenutistico, oltre che formale: il piano-sequenza in steady-cam, manovrata da Roberto De Angelis (dal Carlo Verdone dei primi anni ‘90 a “the Undoing”, passando per “il Caimano”, “Avatar”, “Luck”, “BlackHat”, “UnderWater”), messo a post-prologo a seguire i titoli di testa è un rifacimento in chiave musical - e già da qui in nuce si può comprendere il senso della precettazione spielberghiana di Ansel Elgort per “West Side Story” - e consapevole alla ricerca di 4 caffè delle due inciampanti e stralunate passeggiate su carrello della spesa ammortizzato, prima e dopo lo scatenarsi dell’epidemia zombie, verso l’alimentari proprio di “Shaun of the Dead”.

 


Poi, va beh, impazzisce quasi, e dico quasi, come fosse un film con Nicolas Cage diretto da Takashi Miike e Martin McDonagh dopo averlo espropriato a Paul Schrader, ma a quel punto l’abbrivio è preso, e al finale in drifting si arriva, anche se pur senza accelerazione con freno a mano tirato alla bisogna e controllato controsterzo derapante.

 


Trasportati in giro fisico o metaforico da Ansel Elgort, i vari Kevin Spacey (suo è il ruolo che deve reggere un doppio character twist un po’ troppo esagerato), John Hamm (vero Mad Men, passato dagli attici di Madison Avenue al selciato di Wall Street), Jamie Foxx (con la scusa, falsa come una moneta da 3 euro, ripetuta a mantra per autoincitamento: "Ce ripigliamm' tutt' chell ch'è 'o nuost!") Lily James, Joe Bernthal, Eiza González, CJ Jones, Sky Ferreira, Lanny Joon, Paul Williams e Flea girano pressoché sempre a tutto regime. Cameo à la John Landis, tipo Frank Oz in “the Blues Brothers”, per Jon Spencer (la guardia carceraria).

 


Tutta la crew tecnico-artistica aveva già lavorato con Edgar Wright a partire da “Scott Pilgrim vs. the World”: la fotografia è del raimi-wachowskiano Joe Pope, il montaggio a quattro mani è di Jonathan Amos e Paul Machliss, e le musiche originali sono di Steven Price (“Gravity” e “David Attenborough: A Life On Our Planet”).

 


Infine, testimoniato dai titoli di coda, Walter Hill (“the Driver”, con Ryan O’Neal - che di Elgort potrebbe essere il nonno -, Isabelle Adjani e Bruce Dern, è del 1978; e comunque qui, forma & sostanza, siam più dalle parti di Sarafian/Tarantino che di NWR) presta la voce all'interprete del padre affidatario di Baby/Miles durante il processo.

 

 

Bruuumm! Bruuumm! E poco altro. Ma finché ce n'è, ce n'è.


* * * ½/¾ - 7.25     

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