Regia di Edgar Wright vedi scheda film
"Nessuno può mettere Baby in un angolo”. No, non è il seguito di "Dirty dancing", bensì il ritorno in sella di Edgar Wright. Congegno da action comedy, con azione super, spruzzi di comicità fuori dal coro e pure una storia d’amore che non fa male. A quello ci pensa già il crimine. Una volta tanto, successo e qualità avanzano all’unisono.
Archiviata la fortunata trilogia del cornetto (L’alba dei morti dementi, Hot fuzz e La fine del mondo) e abbandonato il progetto Ant-man per insanabili dissidi con la produzione (in sintesi, non è un regista da lavori su commissione), Edgar Wright si rigetta nella mischia con Baby driver – Il genio della fuga, agguantando un clamoroso, e in fondo meritato, successo (il film sta per superare il traguardo dei cento milioni di dollari incassati negli Stati Uniti, a fronte di una spesa di soli 34).
Una rivincita per l’autore britannico, che scrive e dirige trasmettendo una sana, quanto trasversale, passione per il suo lavoro, sciorinando inoltre la capacità di unire componenti filmiche tra loro distanti senza finire invischiato nelle paludi della retorica.
Forzato a sottostare agli ordini di Doc (Kevin Spacey), Baby (Ansel Elgort) mette al suo servizio innate attitudini alla guida, tali da renderlo perfetto per attuare rocambolesche fughe dopo rapine milionarie. Per lui non si tratta comunque della vita sperata e quando conosce Debora (Lily James) è intenzionato ad abbandonare questo mondo.
Ovviamente Doc non è d’accordo e l’ultimo colpo non sembra raggirabile. La presenza di criminali dalla testa calda quali sono Bats (Jamie Foxx) e Buddy (Jon Hamm) complica ancora di più la situazione.
Accostato per affinità elettive al filone di autisti al servizio del crimine, che annovera titoli come Driver l’imprendibile e Drive, Baby driver è molto di più, ovvero uno zibaldone saporito e rinfrescante che non cerca la facile copia carbone pur rimanendo commestibile per chiunque (da qui il successo), caparbio nel cercare, e trovare, una connotazione personale senza fermarsi nelle più rifocillanti delle oasi che crea lungo la sua progressione.
Edgar Wright sceglie quindi di trasformarsi in giocoliere, con un occhio di riguardo per lo spettacolo senza comunque mai perdere in autonomia. Parte a tutto gas e poi colora lo spartito, dando prosecuzione a una danza funambolica che riesce a ovviare anche ai convenevoli.
Grazie alla sua attitudine di anima asincrona, riesce a rendere funzionale e fuor di retorica anche una storia d’amore tra due giovani (rarità oggigiorno), pennella dialoghi che rifiutano l’omologazione facendo ricorso a parole fuori schema, non si fa problemi a trucidare personaggi e tratteggia una combriccola di umanità singolari e sopra le righe.
In quest’aspetto, il protagonista è una felice intuizione: un ragazzo che alla guida riesce e vedere linee di passaggio impossibili, che cammina, e all’occorrenza corre, al ritmo del pop, lo stesso offerto da un montaggio spettinato, messo al servizio di una regia che lo pedina senza alcuna circospezione, ricercando le variazioni, uscendo dagli schemi, senza per questo perdere di vista la natura del traliccio portante.
Infatti, si sollazza nel marciume, un mondo senza via d’uscita: se sei bravo, il giro non ti molla, seppellendo anche eventuali promesse, e in fondo ad aspettarti c’è sempre la giustizia che alla fine arriva, divina (la morte) o fisica (il carcere) che sia.
Così, il grande amore immerso nel mondo della malavita non ustiona e trova una formulazione d’autore, dinamica e originale, sorretta da un’intelaiatura da action comedy in grado di essere ilare (con chicche sparse, tra citazioni cinefile e pop, oltre a un bambino di otto anni con istinti da delinquente collaudato) e acrobatica, sempre prodiga di estensioni fino all’ultimo colpo che, con una escalation decisamente intensiva, non si fa mancare nulla.
Lo stesso si può dire del cast, ben assortito e perfetto per coadiuvare lo spirito di rivalsa dell’autore. Ansel Elgort si giova di un ottimo personaggio, taciturno e anomalo, dimostrando di aver del talento da spendere (anche in film di routine come Colpa delle stelle denotava di aver qualche dote in più), mentre Kevin Spacey e Jamie Foxx ritrovano un feeling con il gusto della sapida recitazione in acido che spesso hanno smarrito negli ultimi anni. Intorno a loro, Lily James è ancora Cenerentola e Jon Hamm flirta finalmente anche con il cinema trasformandosi in un rozzo criminale dal passato non trascurabile (dopo Mad men non ne ha imbroccate tante), mentre in piccole parti troviamo Jon Bernthal in versione carogna e un pizzico di follia offerta da Flea (sì, proprio quello dei Red Hot Chili Peppers).
Insomma, gli ingredienti buoni ci sono tutti, anche a fronte di etichette che non invitavano certo a sperticarsi in lodi preventive, volendo giusto il finale, comunque complicato da ipotizzare migliore, sembra tirare i remi in barca, per un titolo che è già cult, che riabilita un autore abituato a costruire i suoi film dalla A alla Z, a modo suo, impertinente e pop, uno dei pochi a non accontentarsi dei soliti fuochi d’artificio che poi si rivelano essere petardi da cartoleria.
Una saetta, di facile assorbimento ma anche inusuale, come eleggere Brighton rock dei Queen a pezzo del cuore (o posizionare una traccia strumentale come New Orleans Instrumental no.1 dei R.e.m. in un momento toccante).
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