Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Scelti fra i migliori del loro corso, cinque allievi di un istituto professionale (tre ragazzi e due ragazze), vengono inviati in un imponente maniero di montagna adibito ad albergo di lusso, per servire ai tavoli di una cena di gala che si svolge in onore di una nobile ed anziana signora. Tra una corte di servitori arrivisti, la rigida gerarchia dell'organizzazione alberghiera e la tetra atmosfera di un ambiente paludato e ostile i giovani ragazzi faranno esperienza di un mondo del lavoro dominato dalle divisioni sociali e governato dal potere del denaro e delle ricchezze materiali.
Sempre attento al tema del lavoro ed al punto di vista delle classi più umili, questa coproduzione di Rai 1 e dell'Istituto luce, segna il ritorno alla regia del maestro Olmi dopo la lunga malattia che lo ha tenuto lontano dalle scene per un intero lustro. Racconto di formazione travestito da apologo favolistico e sociale, 'Long Live the Lady!' coglie l'impatto traumatico e intimista insieme di un'esperienza lavorativa che rivela, nel parossismo dell'ambientazione grottesca e nelle sfumature di un amaro disincanto giovanile, il segno di una visione del mondo sospesa tra la nostalgia per un mondo antico e contadino dominato da una rigida educazione religiosa e morale e le degenerazioni di una modernità sociale dove il futile ed il superfluo vengono elevati al rango di indispensabili valori del successo e dell'affermazione individuale.
Non esente dalle consapevoli derive di un implicito didascalismo, il film di Olmi si apprezza di più per l'ingenua verità con cui approccia alla psicologia giovanile (le fantasticherie di Libenzio, la prima delusione d'amore di Mao, la solitudine della giovane commensale) e per la grottesca messinscena di un decadente cerimoniale sospeso tra il funereo ed il conviviale, avvicinado per temi, ambientazione e scansione del racconto le trame di un cinema della memoria e dei sentimenti proustianamente prossimo a quello di un maestro come Carlos Saura ('La Prima Angelica',1974 - 'Cria Cuervos',1975), laddove la perdita dell'innocenza e l'ingresso nell'età adulta sono scandite dall'incessante flusso carsico che emerge alla superficie nei frequenti ed improvvisi squarci onirici (la perdita della madre, i precetti di una rigida educazione confessionale, le angeliche fantasie di una fanciullezza contadina).
Ne riesce un racconto dove il crudele sarcasmo della critica sociale finisce per lasciare il posto all'impianto intimista delle divagazioni favolistiche e dove le terrifiche e spaventevoli figure che affollano all'alba la mente del giovane Libenzio, altro non sono che il viatico verso una fuga dalla realtà di un bambino che non è ancora pronto per diventare adulto (le dissimulate avance sessuali della matura signora, le fisionomie severe o deformi del factotum e della vivandiera, la paura di un mastino giocherellone nel finale). Leone d'Argento al Festival di Venezia e Premio FIPRESCI 1987.
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