Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Parte da un romanzo incompiuto di Beppe Fenoglio (e già lì…) il film che vede per la prima volta Paolo Taviani da solo in cabina di regia (il fratello più anziano, Vittorio - che pure ha collaborato alla sceneggiatura - è impedito da una malattia). E rivela ancora il cinema dei fratelli toscani per quello che è: un cinema d'essai, buono per i cineforum e i festival ad alto tasso di sussiego, ma terribilmente vecchio, sorpassato, incapace di inventiva. In Una questione privata manca tutto: un'idea di racconto, la direzione degli attori (a cominciare da Luca Marinelli, spaesatissimo, quasi in trance, che farfuglia spesso parole incomprensibili, forse per nascondere il birignao legato ai suoi natali romani), quel minimo di effetti speciali che ci si aspetterebbe da un'opera da Festival (con le sparatorie lasciate fuori campo o filmate in campo lunghissimo, relegate all'allusione del suono), il minimo sindacale di realismo che una storia come questa richiederebbe. Già, perché la questione privata del titolo rimanda alla brusca sterzata nella vita di Milton (Marinelli), giovane guerrigliero resistenziale che, durante i preparativi per un'azione bellica, finisce nei pressi dell'abitazione di Fausta (Bellè), la ragazza amata fino a un anno prima che però teneva in fibrillazione anche il suo amico Giorgio (Richelmy). La custode della casa (Ferruzzo), ormai lasciata vuota, racconta a Milton che tra Giorgio e Fausta c'era del tenero (o, meglio, del duro), a insaputa dello stesso Milton. Il quale, venuto a sapere che il suo vecchio amico è stato fatto prigioniero dai fascisti, cerca di catturare una camicia nera per poter scambiare l'uomo sequestrato con lo stesso Giorgio, e farsi raccontare finalmente la verità.
Ambientato con effetti risibili nella fumanti langhe piemontesi, Una questione privata irrita per l'assoluta irrilevanza conferita alla recitazione che, se può essere tollerabile per i tanti attori improvvisati visti nel film, diventa insopportabile nel caso di Valentina Bellè, che si conferma una miracolata della settima arte. Per il resto, il ritmo è talmente snervante da far percepire l'ora e venti di film per il doppio della sua durata, le inquadrature hanno una fissitudine degna di Roy Andersson e i dialoghi non sono all'altezza di un'opera letteraria dalla quale pure partono.
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