Regia di Sebastiano Riso vedi scheda film
*Ispirato a storie vere*.
La didascalia iniziale funge già da atto/manifesto giustificatorio e autoassolutorio, programmatico. Assieme alla semplicistica sarabanda di fatti e contenuti e tematiche che fanno scattare, immediata e altrettanto fugace, l'indignazione popolare, da talk show pomeridiano.
Un film, Una famiglia, che si colloca mollemente in una dimensione salottiera, incapace di oltrepassare la (sensazionalistica) cortina aneddotica e cronachistica.
Inevitabile lo sdegno spontaneo (rumoroso) dello spettatore al possibile, probabile, abbandono del neonato tra i cassonetti: ma non c'è altro, nulla, nessuna implicazione né riflessione che non sia il mero racconto, il raccordo con la scena successiva che mostra reazione dei personaggi e prosecuzione della linea narrativa. Così, lo stesso spettatore guarda e, un secondo dopo, si scagiona, dimentica.
Le “storie vere” non sono che un crocevia meccanico e riduttivo di storielle che intersecano facili, intuibili ricezioni emotive con la necessità e le dinamiche strutturali del dramma nazionalpopolare.
In pratica, una soap o una fiction dai toni “impegnati” solo perché di tragedie in contesti duri e aspri si parla. Ma alla maniera, e con il linguaggio e i codici approssimativi e convenzionali, di una soap o di una fiction.
Al centro, una coppia: il francese che si fa chiamare Vincenzo, maschio alfa dai modi rudi, una persona “non perbene”, e la madre-incubatrice Maria (toh), succube e fragile, indifesa, generatrice di pargoli (da vendere come fossero merce) e peccati. Originali e non.
Il disegno filmico-drammaturgico è un bozzetto spiccio, manicheo, eseguito da mani non propriamente abili, come tremanti, sudaticce, per la foga di dar sfoggio di sé, del guizzo creativo.
Che non c'è, celato com'è, da un'evidente inadeguatezza a trattare temi così delicati.
Non bastano certo qualche movimento di macchina arioso o che sa insinuarsi nelle pieghe della rappresentazione scenica per poter definire, fare, un'opera cinematografica.
La superficialità di approccio e realizzazione risiede in ogni increspatura del testo: personaggi senza spessore alcuno lasciati alla deriva (dalla coppia protagonista in giù), altri raccattati come banale complemento del crogiolo di storie “forti” e come tali sbattuti nell'impaginazione senza né reali motivazioni né consistenza idonea (il medico complice dallo sguardo lascivo, la giovane dall'aria persa e innocente in procinto di surrogare la sempre più problematica Maria, il “genitore” di una bambina morta dopo pochi mesi poiché “guasta”), altri ancora dal risibile assetto (la coppia di attori omosessuali); e dialoghi vuoti, situazioni posticce, senso disciolto nella fiumana di una (pres)untuosità e una pretestuosità palesi e incontrollati.
Non giova certo la scelta della protagonista, Micaela Ramazzotti, che “ramazzotteggia” da par suo (immancabile “recitazione” tutta bronci, isterismi, catatonia, infantilismo), minando irrimediabilmente la già poca credibilità del personaggio di Maria, laddove invece riesce il malcapitato Patrick Bruel, a cui bastano espressioni minime e presenza scenica per annullare facilmente la partner.
Non stupisce quindi affatto che Una famiglia, diretta e co-sceneggiata da Sebastiano Riso (Più buio di mezzanotte), sia stato così malamente accolto alla Mostra del cinema di Venezia 74, assurdamente in concorso.
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