Regia di Terry Gilliam vedi scheda film
ipotesi sul futuro, oggi realtà
Una distopia pandemica oggi non meraviglia nessuno, ma nel 1995, e ancor più nel 1962 e negli anni ’50, anni di nascita de L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam, e prima ancora de La jetéè di Chris Marker, e infine del racconto breve The Skull di Philip K. Dick del 1952, avremmo gridato ai profeti di sventura, ai soliti pazzi visionari o, rispettandone il genio indiscusso, ai giocolieri della fantasia che confini non ha.
Oggi no, 2024, la profezia che si autoavvera si sta avverando senza che quasi nessuno se ne renda conto
Crediamo di sapere, capire, prevedere, ma siamo sempre e comunque vittime di noi stessi, della nostra incapacità di falsificare ciò in cui crediamo e guardare l’abisso che la nostra specie sta finendo di scavarsi.
Un altro genio, Leopardi, lo disse quasi due secoli fa: Abisso orrido, immenso, in cui precipitando il tutto oblia.
Ma bando alla tristezza, continuiamo a credere che gli incubi siano frutto di una bella indigestione e programmiamo le vacanze alle Haway. È un bel posto davvero, dice la pubblicità nel film.
Gylliam si ispirò al corto di Marker che, morto un bel po’ di anni dopo, 2012, poté perfino collaborare al progetto.
Oggi, dopo circa trent’anni, rivediamo questo film sui nostri schermi casalinghi (sul grande schermo sarebbe pura utopia) eppure l’impatto è lo stesso, disturbante, ipnotico, perfino divertente a tratti e certamente spiazzante.
Vedere Cole (Bruce Willis) rapito daSleep Walk di Santo & Jonnhy o da Suite punta de l’Este di Piazzolla, preso da dolce incantamento quando Armstrong attacca What A Wonderful World, sguazzare felice in un ruscelletto mentre guarda le stelle dopo aver corso le peggiori avventure, ferito quasi a morte, coperto di sangue e lividi, certo è divertente, dice tante cose sulla capacità dell’uomo di reinventarsi ogni volta la vita.
Non saremmo qui, del resto, se così non fosse, ne abbiamo combinate talmente tante dal paleolitico in giù, che dovremmo essere spariti da un pezzo dalla memoria delle galassie.
Dunque, chi è James Cole.
Siamo nel 2035. La popolazione terrestre, decimata da un virus che ha sterminato cinque miliardi di individui, vive nel sottosuolo di quella che fu Filadelfia.
James Cole, un detenuto, con la promessa della grazia accetta di venir mandato indietro nel tempo per modificare l’ordine degli eventi cercando un antidoto alla pandemia. Cole, a causa di un errore, va dapprima a finire nell’anno sbagliato (1990), viene rinchiuso in un manicomio dove nessuno gli crede, incontra la psichiatra Kathryn Railly (Madeleine Stowe) che mostra spiragli di comprensione sul suo stato e un animalista pazzo, Jeffrey Goines (Brad Pitt) veramente incantevole nella sua allegra pazzia, anche lui disposto a credergli, naturalmente a suo modo.
L’errore degli scienziati è non averlo spedito nel 1996 (la pandemia scoppiò l’anno dopo e suo compito era trovare indizi utili per fermarla prima che si diffondesse).
Errore non da poco, e già da lì cominciamo a capire quanta fiducia possiamo riporre nella scienza.
Dal letto di contenzione lo risucchieranno gli scienziati che l’hanno spedito indietro (il virologo premio Nobel Leland Goines che ha scoperto il virus e vari altri messi in scena su piccoli schermi da cui discettano come fossero in un’aula universitaria). Lo rispediranno nel 1996 dandogli un’altra possibilità.
La strana idea di tornare al passato dal futuro per modificarlo merita da sola un discorso a parte, indirizzando al Principio di autoconsistenza di Novikov sul viaggio nel tempo che diventa quindi di viaggio di predestinazione e non più di risoluzione.
Ma senza perdere di vista il film diciamo che, avanti e indietro lungo il c.d. secolo breve, a Cole succede di tutto, e purtroppo la sua missione fallisce proprio quando è lì lì per farcela, e, stando al clima surreal/onirico del film, sembra proprio lo sgonfiarsi improvviso di un incubo.
Il commento di Goines davanti al monitor che trasmette sevizie su animali da laboratorio è il suggello che ci trova tutti (?) concordi:
“Forse la razza umana merita di essere eliminata”.
Cole non riesce nella sua mission, il passato non si cambia, ma in compenso trova due cose fondamentali: sé stesso e l’amore della psichiatra.
Il suo incubo ricorrente, con lui bambino in aeroporto, la madre bionda che corre disperata, un pericolo incombente, si è finalmente spiegato e lui può morire (o svegliarsi) felice.
Raccontare il plot di un film come questo è impossibile e soprattutto danneggerebbe il suo incontenibile caos.
E’ immersivo, risucchia lo spettatore nello stesso vortice di Cole, lo inabissa in una serie di avvenimenti caotici, spesso scollegati dai parametri della logica comune, eppure tali da trattenere l’attenzione, fiduciosi nel passo successivo.
Impossibile trovare il filo di Arianna, ci aiuta Borges ricordandoci in quale assurdo labirinto viviamo: dinamiche relazionali costruite e smantellate per essere poi ricostruite, digressioni temporali che annullano l’idea canonica di tempo, i pazzi siamo noi o quelli chiamati pazzi?
Il personaggio di Cole, spiegò il regista, è stato inviato da un altro mondo nel nostro ritrovandosi di fronte alla confusione in cui viviamo, che molte persone in qualche modo accettano come normale.
Cosa è successo al mondo nel ’96 e da dove proviene l'immagine che lo perseguita è il centro dei problemi di Cole.
Per capire dovrà sconfiggere l'esercito delle 12 scimmie, capitanato proprio dal perfido Jeffrey Goines, prima simpatico pazzo poi scellerato figlio dello scienziato scopritore del virus.
La bella psichiatra, conosciuta nel ’90 e riconosciuta nel ’96, sarà la sua “Beatrice” al momento giusto, con abile volteggio nel passare dalla vita reale al sogno ricorrente.
Sogno e follia fanno il pieno in un film in cui l’equilibrismo delle immagini, il ritmo accelerato, gli sfondi da incubo creano un bricolage narrativo in cui riconosciamo la sostanza della vita con i suoi vuoti e i suoi pieni, assurdo teatro di marionette mosse da fili invisibili in mano a chissà chi.
Nell'odissea dell'uomo venuto dal futuro e della bella psichiatra costretta a seguirlo, vibra un senso davvero dolente di questa fine secolo china sull'abisso del collasso ecologico - scriveva Fabio Ferzetti su Il Messaggero del 27 maggio 1996.
A cui aggiungiamo il commento di Callisto Cosulich, Avvenimenti, 29 maggio 1996: Nel film regna sovrano il pessimismo dell'intelligenza e non esiste volontà in grado di bilanciarlo. Il mondo è destinato a finire, non per le nostre malefatte, come vogliono i racconti morali, ma per caso: un finale non escluso dalle ipotesi scientifiche.
E aggiungiamo il suo commento, quello dell’autore, che più ci avvicina al senso del film:
La storia? Devo dire che è sconcertante. Si tratta di tempo, di follia e di una percezione di ciò che il mondo è oppure non è. È uno studio di follia e di sogni, di morte e di rinascita ambientata in un preciso mondo a venire.
Esistono dati reali che confermano che la sopravvivenza della Terra è compromessa dagli abusi della razza umana. La proliferazione dei dispositivi nucleari, i comportamenti sessuali smodati, l’inquinamento della terra, dell’acqua, dell’aria, il degrado dell’ambiente. In questo contesto non le sembra che gli allarmisti abbiano una saggia visione della vita? E il motto dell’homo sapiens: andiamo a fare shopping, sia il grido del vero malato mentale?
E prima di chiudere non possiamo non segnalare la sequenza più straordinaria, quella degli animali liberati dallo zoo che vagano liberi per strade e cavalcavia, tetti, ponti e ferrovie. E non manca uno splendido stormo nel cielo.
Quell’ “Esercito delle dodici scimmie”, logo del gruppo ambientalista capeggiato da Jeffrey Goines, ha vinto, gli animali si riprendono gli spazi usurpati da una specie che non meritava di esistere, saranno loro a ridare forma al pianeta.
Presentato a New York l’8 dicembre 1995, arrivò agli Oscar 1996 dove conquistò due nomination (Miglior attore non protagonista e Migliori costumi). 168 milioni di dollari di incasso, costato 30.
www.paoladigiuseppe.it
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