Espandi menu
cerca
L'ora più buia

Regia di Joe Wright vedi scheda film

Recensioni

L'autore

79DetectiveNoir

79DetectiveNoir

Iscritto dall'11 febbraio 2020 Vai al suo profilo
  • Seguaci 16
  • Post 82
  • Recensioni 340
  • Playlist 7
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su L'ora più buia

di 79DetectiveNoir
8 stelle

Capolavoro o quasi. Riporto qui le recensioni di Onofri e di Pacilio. Inoltre riporto qui, anzi rimarco fermamente la mia recensione e la mia indistruttibile posizione! Basta adesso!

Gary Oldman

L'ora più buia (2017): Gary Oldman

Kristin Scott Thomas, Gary Oldman

L'ora più buia (2017): Kristin Scott Thomas, Gary Oldman

locandina

L'ora più buia (2017): locandina

 

Ebbene, mi mancava questo film. Sinceramente, sebbene in passato ne accennai più volte, in verità vi dico che, ai tempi della sua uscita nelle sale, mi sfuggì.

Fu un periodo per me assai tribolato ove perfino ingrassai a mo’ del Gary Oldman di questo film.

Ma, alla pari dello strepitoso, immarcescibile Gary, qui simile al De Niro di Toro scatenato del secondo tempo, appesantito oltremodo à la Christian Bale di Vice - L’uomo nell’ombra, è inconfutabile che similmente a questi attori maestri dell’eclettico trasformismo e del “fregolismo” fisico più camaleontico, io sia altrettanto capace di mutare aspetto in maniera impressionante.

Detto questo, appurato ora il mio dimagrimento, auto-magnificando il mio istrionismo insuperabile, acclarato davanti al mio specchio il mio Falotico rigenerato e ringiovanito in modo miracolistico e superbo, cioè dopo l’aver ritrovato il mio peso forma congenito, non alterato da una vita sregolata, più che altro ingiustamente sedata, non voglio più condurre una vita sedentaria, no, in tale sede effettivamente non recensirò personalmente questo capolavoro inaudito. Del quale, pochi minuti fa, ho ordinato il Blu-ray in 4K, nella speranza di poter riparare presto il mio lettore...

Paolo Mereghetti non spese belle parole in merito a quest’opera straordinaria, oserei dire magnifica di Joe Wright. Onestamente, non ne capisco le ragioni. Definì, su Io Donna, la prova di Oldman un’identificazione caricaturale, quasi da Bagaglino, del titanico Winston Churchill. Ah ah, niente di più sbagliato. E ritenne l’opera di Wright risibile in molti punti, inguardabile e populistica nella scena in metropolitana prima del climax finale.

Giudicando troppo superficialmente questa perla sconsiderata, cinematograficamente altissima e pregiata. No, non è un semplice e banale ritratto agiografico dello statista Churchill.

È molto di più. Difatti, Mereghetti si ravvide e corresse, aggiustò cioè il tiro nel suo Dizionario dei Film.

Innanzitutto, rappresenta il miglior film in assoluto del grande Joe Wright. Ho scritto Joe, da non confondere con Edgar.

Dopo alcuni scivoloni e il pasticciaccio (forse) di Pan, disastro assoluto al botteghino e macellato senza pietà dalla Critica mondiale, Wright dimostra/ò ancora una volta di essere uno dei massimi registi “giovani” (classe ‘73) del panorama mondiale.

Qui, avvalendosi d’un Anthony McCarten mai così ispirato, come già dettovi, realizza/ò un masterpiece immane.

McCarten, specializzato oramai nell’allestimento, più o meno riuscito, comunque sempre stimabile di biopic sui generis ispirati a grandi personaggi storici del passato e non. Forse da lui stesso troppo mitizzati o comunque, in modo sacrosanto, in gloria immortale elevati e venerati.

Ecco allora Stephen Hawking de La teoria del tutto, Freddie Mercury di Bohemian Rhapsody, Papa Bergoglio de I due papi.

Eddie Redmayne vinse l’Oscar nei panni di Hawking, stessa cosa successe (e che successo) per Rami Malek as Mercury, non smentendo il detto non c’è due senza tre. Poiché, nel mezzo, vi fu Oldlman.

Forse è altresì vero, anzi, in tal caso più realistico, che non c’è 3 senza 4. Poiché Jonathan Pryce, per Two Popes, non vinse.

Ora, Darkest Hour è emozionante, Oldman è incredibile e fenomenale, Wright dirige da dio, è un virtuoso delle sottigliezze visive, e Ben Mendelsohn, qui sua maestà il Re George VI, è eccezionale.

Quindi, ho sentenziato senza girarvi troppo attorno.

Voglio qua copia-incollarvi le belle recensioni a riguardo di Anton Giulio Onofri e di Luca Pacilio, rispettivamente per Close-Up e spietati.it

Delle quali, anzi dei quali (riferito a loro due appena succitati), condivido appieno ogni singola parola.

Piccoli aneddoti prima della trascrizione, diciamo, integrale delle reviews.

Mia nonna materna defunta, di nome Margherita, ebbe un amico di nome Onofrio. Mentre Onofri fu un mio contatto Facebook per qualche anno. Nelle sue info FB, si trova scritto a tutt’oggi che frequentò l’Università del sacro Clint Eastwood. Da me inventata, da me rubatami.

Si complimentava sempre per la mia voce. Onofri la reputa ancora stupenda.

Poi, gli mandai un vocale troppo aggressivo, in quanto venni infastidito da alcune sue osservazioni non propriamente nei miei confronti carine.

Onofri è infatti avvezzo a criticare troppo pungentemente chi non vuole vedere perdersi nell’avvizzimento. Forse, voleva provocarmi per spronarmi a combattere.

Insomma, non usiamo eufemismi o vezzeggiativi, mi prese per il culo smodatamente.

Pacilio invece io conobbi di persona al Festival di Venezia di tanti anni fa. Lui fumò delle sigarette dietro l’Hotel Excelsior. Poi, recapitò a casa mia, in forma di regalo, dei presenti, cioè un disegnino del mio adorato Daniel Day-Lewis di Gangs of New York, sì, il Butcher, e un paio di cd masterizzati dei Chemical Brothers e di Badly Drawn Boy.

Durante quell’incontro amichevole e non intimo, gli chiesi cosa pensasse di me.

Lui, con estremo garbo e cortesia, dapprima ridacchiò bonariamente, dunque mi disse:

- Pensavo che fossi un tipo con la pistola nascosta da qualche parte. Ah ah. No, sei di un’altra categoria...

 

RECE di Onofri: http://www.close-up.it/darkest-hour 

In un’annata avara di titoli importanti, e soprattutto capaci di mettere d’accordo umori ed esigenze di critica e pubblico, arriva finalmente sugli schermi un film che a buon diritto potrebbe pretendere incondizionati applausi da entrambi, presentato in anteprima nazionale al 35mo Festival di Torino: Darkest Hour, ‘L’ora più buia’, diretto dall’inglese Joe Wright, ma ‘dominato’ in lungo e in largo, e dall’inizio alla fine, dalla monumentale prestazione di Gary Oldman, candidato sicuro alla statuetta più famosa del Cinema che finalmente consacrerebbe la carriera di uno dei massimi attori viventi: la sua non è una ‘interpretazione’ ma la vera e propria ‘reincarnazione’ in uno dei personaggi storici e politici più importanti e determinanti dl XX secolo, Sir Winston Churchill. Uomo rude, ciarlatano, guerrafondaio, indesiderato Primo Ministro nominato contro ogni aspettativa per invertire la rotta dell’inerte e ostinato pacifismo di Chamberlain, fu lui che risvegliando in tutti i membri del Parlamento britannico, nel Re Giorgio VI (il ‘Bertie’ de Il discorso del Re), e nell’intero popolo d’Inghilterra l’orgoglio di appartenere ad una nazione che mai si sarebbe voluta piegare alla tirannia di un Hitler ormai padrone di mezza Europa, convinse tutti della necessità di non arrendersi e di combattere ‘fino alla Vittoria’. La Storia gli diede ragione.

Magnificamente scritto da Anthony McCarten, qui infinitamente più efficace che nel modesto La Teoria del Tutto (il film su Stephen Hawking che tuttavia gli valse un premio BAFTA e fece vincere l’Oscar come attore protagonista a Eddie Redmayne), Darkest Hour è un formidabile ‘assolo contro tutti’ di un Gary Oldman in stato di grazia assoluta, capocomico di una ciurma di attori e attrici perfetti nell’assecondare il suo trascinante e falstaffiano carisma, che fu poi lo stesso di Churchill: intorno a lui, alla sua ormai corpulenta e invadente figura, al suo volto tornato bambino illuminato da due nordici, inglesissimi occhi piccoli, liquidi e grigi, e imbolsito da un’inedita pappagorgia che gli conferisce la necessaria paterna severità, Joe Wright tesse una regia che è in realtà un’orchestrazione sinfonica fantasiosa ed elegantissima, smorzata nei toni sbiaditi dell’immaginario fotografico di quei drammatici anni ’40 (restituito con abbagliante virtuosismo coloristico dalla fotografia di Bruno Delbonnel), e scandita dalla felice partitura musicale di Dario Marianelli, concepita in simbiosi con una mise en scène allestita con grazia ed esattezza millimetrica nel calibrare il montare delle emozioni e nel giocare con la reattività degli attori traendone spinte e mobilità che mantengono in perenne ebollizione il ritmo del racconto. La sequenza, decisiva, in cui Churchill si smarrisce in metropolitana ed entra per la prima volta in vita sua in contatto con il popolo da lui governato e per il quale ha assunto l’aggravio di spaventose responsabilità vista la precipitazione di eventi di così tragica portata, è un capolavoro di crescendo emotivo e teatrale, ennesima dimostrazione della straordinaria mano di narratore per il cinema del regista di Espiazione e di Anna Karenina. Ma l’impressione più forte che scaturisce dalla visione di questo film storico realizzato ed uscito al cinema durante il corso delle pratiche che attueranno la definitiva uscita dell’Inghilterra dalla Comunità Europea in virtù della Brexit, e comunque, più in generale, in anni in cui il mondo intero, spaccato da divisioni e conflitti apparentemente insanabili e a serio rischio di nuovi scontri bellici un po’ dovunque per tutto il pianeta, torna, come allora, a interrogarsi sulla pace e sull’incolumità dei popoli della Terra, è data dal constatare come dalla Storia l’Occidente non abbia imparato un bel niente, e che quella stessa tragica angoscia gestita da figure titaniche e irripetibili di uomini impegnati nello sforzo di sconfiggere il Male puro e spianare la strada di una pace e di una libertà perseguite come ideali possibili e permanenti fino alla fine del secolo ventesimo, è identica all’angoscia di noi terrestri contemporanei, alle cui orecchie le arringhe di un Churchill che incita il suo popolo al sacrificio per difendere il diritto di vivere liberi e in pace, suonano come i discorsi di antichi eroi omerici, di condottieri di epoche lontane, con le quali abbiamo perso definitivamente il contatto, e che siamo in grado di rivivere ormai soltanto nelle ricostruzioni cinematografiche, mentre nella realtà vaghiamo confusamente in un’incerta e densa tenebra di fuoco e di lutto.


RECE di Pacilio (parziale): https://www.spietati.it/lora-piu-buia/ 

A Wright non interessa consegnare un modello cinematografico riconoscibile, ma muoversi liberamente su più piani: così non mette mai da parte l’approccio teatrale, con sipari classicamente frontali (l’incontro tra Churchill e il re) e dà risalto a un apparato scenico che è parte integrante di uno sguardo che tutto lo abbraccia, in cui quella scenografica è una funzione viva ed espressiva, mai meramente decorativa; e nello stesso modo eloquente usa le luci (per tutte la scena in cui il re va a trovare Churchill per garantirgli il suo appoggio: nell’ora più oscura la scena è illuminata soltanto da una lampadina nuda, a restituire i personaggi nella loro fragilità, nel loro terrore). Il film non si impiglia mai nelle barbose didascalie che dovrebbero illustrare il complesso contesto storico, ma fa sì che lo spettatore non perda mai il punto della situazione attraverso una dialogistica che si fa illustrazione concisa, mai pedante, sempre perfettamente motivata con quello che è l’obiettivo drammaturgico (Churchill che spiega a Elizabeth la situazione a Dunkerque), giocando con gli ammicchi e il sentimentalismo del cinema classico (quella discussione nella metro sembra tratta da un vecchio film RKO). Con la stessa mirabile sintesi Wright rende la realtà storica con sguardo obliquo, la ferma in quadri folgoranti (il bambino che guarda il passaggio dell’aereo e lo cattura nella sua mano), la illustra con i carrelli sulle strade di Londra, solenni ralenti che dipingono un clima. Perché è con la macchina da presa che il cineasta racconta le cose: la sua grandezza sta nel non cadere mai in una logica di servizio, di lavorare ogni sequenza in modo anti-accademico, inventivo, conferendole un carattere peculiare che ne giustifichi la visione.

 

Gary Oldman, Stephen Dillane

L'ora più buia (2017): Gary Oldman, Stephen Dillane

 

Ebbene, sia ne L’ora più buia che in Mank, Oldman interpreta due uomini realmente esistiti afflitti dall’alcolismo.

Bravissimi a scrivere, impareggiabili nell’uso delle parole. Che dettano la loro arte oratoria a delle timide dattilografe.

Entrambe non sono strafighe. Bensì donne comuni.

Dunque, in questo mondo oggi atterrito dal Covid-19, oppresso dalla tirannia degli stronzi che si credono boni e ipocritamente buoni, in questo mondo ove chiunque pensa di essere Gary Oldman o Kristin Scott Thomas, esibendosi sterilmente in selfie ignobili e idioti su Instagram, noi combatteremo contro ogni uomo e donna omologato, appiattito non solo nell’addome, noi non verremo vinti dai nazi-fascisti e da quelli come Adolf Hitler, un figlio di troia.

Noi non c’arrenderemo mai.

Se non vi sta bene, attaccate e bombardate pure, haters.

Sappiate che sono molto più forte di voi.

Dunque, crollerete e parecchio piangerete.

Io non negozio, io non mi rabbonisco con chi voleva bruciare la mia vita a mo’ di ebreo.

Io li distruggo.

Io non dimentico, io non perdono.

Mi spiace per loro.

 

Lily James

L'ora più buia (2017): Lily James

 

 

di Stefano Falotico

 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati