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L'ora più buia

Regia di Joe Wright vedi scheda film

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La recensione su L'ora più buia

di Peppe Comune
8 stelle

9 maggio 1940. Di fronte all’avanzata poderosa dell’esercito tedesco lungo tutta l’Europa, il secondo conflitto mondiale sembra avere un esito ormai scontato. In Inghilterra, sotto la pressione insistente dell’opposizione parlamentare, il primo ministro inglese Neville Chamberlain (Ronald Pickup) è costretto a rassegnare le dimissioni. Il partito Conservatore è disposto a votare compatto per il visconte Halifax (Stephen Dillane), ma c’è solo un uomo al momento capace di garantire la creazione di un governo di larghe intese : Winston Churchill (Gary Oldman).È l’unico uomo del suo partito a non essere inviso alle opposizioni e così, nonostante la diffidenza di Re Giorgio IV (Ben Mendelsohn), diventa primo ministro in uno dei momenti più bui della storia del suo paese. Occorre decidere in fretta cosa fare : intraprendere la via diplomatica per evitare un “inutile spargimento di sangue” come vogliono i suoi colleghi di partito e auspica la Corona, o continuare a combattere e credere che la guerra contro i nazisti la si possa vincere come pensa testardamente lui stesso. Sorretto dalla silente complicità della moglie Clementine (Kristin Scott Thomas) e della valida collaborazione di Lily (Elisabeth Layton), la sua dattilografa personale, la fedele custode dei suoi penetranti discorsi, Winston Churchill si adopera con tutte le forze necessarie per cercare di cambiare direzione al corso della storia.

 

Gary Oldman

L'ora più buia (2017): Gary Oldman

 

 

“L’ora più buia” del regista inglese Joe Wright si concentra su un arco temporale che va dal 9 marzo al 4 giugno del 1940, dal giorno dalle dimissioni di Neville Chamberlain fino allo svolgimento dell’operazione Dynamo, tesa a frenare l’avanzata dell’esercito tedesco sul fronte occidentale europeo. Ventisette giorni che obbligano il neo primo ministro Winston Churchill a riflettere sul ruolo che il suo paese deve assumere nello scacchiere della geopolitica internazionale alla luce degli sviluppi tragici che vanno caratterizzando l’esito della seconda guerra mondiale. Il film ci porta dentro i dilemmi di un uomo chiamato ad intraprendere una sfida molto ardua con la storia che si sta scrivendo sotto i suoi occhi, una sfida che lui accetta di condurre   ostentando una spavalda sicurezza nelle sue qualità di “stratega della politica” (il segno di vittoria fatto con le dita ne è una palese testimonianza), con la consapevolezza di aver commesso qualche “errore di giudizio” (come dice il Re) in passato (gli viene spesso rinfacciata la cosiddetta “disfatta di Gallipoli”), ma anche con la ferma convinzione che bisogna condurre una guerra senza limite se si vuole sperare di avere la meglio contro il fronte del male.

L’inizio è la storia che fa subito la sua presenza, attraverso immagini di repertorio accompagnate da didascalie che ci informano dell’avanzata militare della Germania nazista. La storia rimane poi a fare da sfondo principale, oltre le stanze buie dove è ubicato il gabinetto della guerra, ma cede il passo all’artificio cinematografico che, giocando di sponda con i fatti reali, tende a far emergere la complessa personalità di sir Winston Churchill attraverso una messinscena che ne risalta soprattutto i dubbi ossessivi. La sua ossessione si chiama Adolf Hitler, l’incarnazione di un male che deve essere affrontato per quello che è, faccia a faccia, se si vuole estirparlo alla radice. Il nazismo non esige arretramenti, non vuole mezze misure, l’avanzata poderosa dell’esercito tedesco obbliga a pensare alla guerra senza sosta come all’unico deterrente possibile. La via diplomatica, oltre a sancire una “pace” effimera e ingloriosa, servirebbe solo a legittimare la politica del Führer, a dargli una patente di lecita validità quando, invece, è proprio sulla natura sommamente illecita che bisogna puntare se si vuole condannarla in una maniera drastica e assoluta. Questo è quanto medita Churchill, questo è quanto serve a fare della storia un palcoscenico "ideale" dove a ognuno è dato il compito di recitare il proprio ruolo in quel grande dramma che si sta compiendo intorno al destino del mondo. Una danza macabra dove non mancano le battute ironiche (“Anche un orologio rotto due volte al giorno da l’ora esatta”, dice Re Giorgio apostrofando il neo primo ministro), le situazioni grottesche (si veda la scena in cui il Re conferisce a Churchill l’incarico di capo del governo o quella della telefonata al presidente americano Franklin Delano Roosevelt), le derive buoniste (il giro di Churchill in metropolitana, tra la gente comune) o le “gigioneggiate” teatrali, ma dove a prevalere è quel non visto che il film ci consegna in tutta la sua natura malefica. In effetti, “L’ora più buia” vive della dialettica tra campo e fuori campo (in una maniera decisiva direi), tra l’urgenza di prendere delle decisioni “qui e ora” relativamente al male che occorre combattere, e il delirio Hitleriano che di quel male rappresenta la fonte unica e primigenia. Nel primo caso, centrale diventa la capacità dialettica di Churchill, l’uso “consapevole” della parola, raffinato e furbo insieme (“Ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in guerra”, dice molto emblematicamente il visconte Halifax in una delle potenti requisitorie di Churchill in parlamento). Nel secondo, l’ossessione compulsiva per l’espansione nazista diventa il modo deputato per far rimanere la storia sempre al centro dello scenario anche se si palesa solo per brevi accenni.

A tutto questo contribuisce una regia che produce linguaggio attraverso un uso sapiente degli ambienti e una fotografia (di Bruno Delbonnel) “ombrosa” che aderisce perfettamente ai chiaro scuro della storia rappresentata. A delle panoramiche che si alzano a plongée con stacchi repentini, seguono delle carrellate “labirintiche” che conducono in ambienti claustrofobici. Sia le riunioni di gabinetto che le sedute plenarie il parlamento, quasi mai sono riprese in campo totale e quasi sempre sono come tagliate a fette da una luce che sembra agire arbitrariamente rispetto al contesto di cui deve riflettere gli umori. Tutto è funzionale a far si che si generi una sorta di effetto schiacciamento, come di un pericolo incombente la cui prossimità dipende tutta dall’indirizzo politico che si decide di adottare.

Joe Wright è un regista che ha attinto molto dai classici della letteratura mondiale (“Orgoglio e pregiudizio”, “Anna Karenina”, “Espiazione”). In questo caso, mantenendosi sempre fedele al modo a lui più consono di fare cinema, giunge ad un esito (a mio avviso) più elevato conservando quel respiro letterario che ha caratterizzato finora una parte consistente della sua produzione cinematografica. Per questo film, Wright gioca specularmente con alcune caratteristiche peculiari di Winston Churchill, come la sua cultura espansa, la capacità di leggere la situazione politica coeva attraverso i classici della letteratura, l’uso pregevole delle parole, l’arte retorica, (si ricordi che è l’unico uomo politico insignito del premio Nobel per la letteratura), il whisky e l’amato sigaro. Rimangono però degli aspetti caratteriali letteralmente adombrati dalla gravità geopolitica del momento, ma che emergono appena il giusto per farne una sorta di eroe letterario molto sui generis, un titano che ha fatto del suo corpo da omaccione sgraziato un baluardo indomito contro la tirannia nazista. L’aspetto che più di ogni altro ha consegnato Winston Churchill tra i giganti del “secolo breve”.  Grande prova d'attore di Gary Oldman per un buon film.

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