Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film
Gli angeli perduti (o meglio “caduti”) di Wong Kar Wai sono tre anime isolate che vagano senza una reale meta per la città di Hong Kong: Ming (Leon Lai), il killer dalla soggettività tormentata, la sua misteriosa agente personale (Michele Reis), ed Ho Chi, un giovanissimo muto in cerca dell’amore (e di un lavoro), il quale bazzica tra una statale e l’altra improvvisando esigue attività manifatturiere. C’è un elemento portante dell’intero impianto narrativo che li mette in comune: la solitudine. L’assassino perché vincolato dall’impossibilità di mantenere dei rapporti affettivi stabili (ha una foto fasulla con moglie e figlio di colore, giusto per mostrarla ai vecchi compagni di scuola nel caso in cui facciano qualche scomoda domanda riguardante la sfera privata). La sua conoscente sfoga il suo carattere represso in preda all’alienazione masturbandosi a ritmo jazz. Il ragazzo senza parola ed emarginato viene costantemente allontanato dai suoi potenziali clienti per la sua indole invadente, e cerca di catturare lievi scorci di quotidianità con dei videoclip girati a mano. In quegli istanti, in quei piccoli momenti di rallegramento, il lasso narrativo sembra fermarsi e il tempo si dilata in riprese fugaci e schizzate. I volti, gli spazi e i personaggi vengono mischiati e dipinti in un quadro espressionista dalla fotografia colma di sfumature lisergiche e sfuggenti; gli intrecci sono legati da un montaggio concitato, a tratti rutilante nelle illuminazioni e nelle accelerazioni fulminee del frame rate. La poetica abbacinante di Kar Wai alterna momenti soavi e malleabili (indimenticabile e commovente il corto finale dedicato al padre di Ho Chi), attimi di scabrosa violenza grafica e lunghi minuti di romanticismo spirituale, ovvero le parti del corteggiamento dagli echi chapliniani di Ho Chi con Cherry, ragazza in carenza d’affetto ed in crisi d’identità (peccato per la caduta di stile nella pleonastica scena dove "si rivolta” contro la bambola gonfiabile), ed i frangenti dedicati al consunto e travagliato rapporto affettivo tra Ming e Punkie. Il regista cerca di introiettare l’astante in quel milieu polimòrfo, dal simbolismo utopistico, caratterizzato da desideri, aspirazioni, speranze ineffabili, e ciononostante posti in funzione di ideali chimerici, il cui raggiungimento riserva dei percorsi tortuosi ed angariati ove risiedono, seppur per brevi frazioni d’esistenza, quei secondi di agognata, semplice e pura felicità. Ricorrenti le riprese in step-framing dalla prospettiva stordente, in grado di far evaporare dalla parvenza della cosmesi filmica quell’aura sporca, distruttiva, fumosa, repressa della megalopoli cinese. "Fallen Angels" è una parabola amara, precaria e persino compiaciuta dell’illusione di un appagamento corporeo di impercettibile fisicità, ma dal riflesso persistente.
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