Regia di Mike Nichols vedi scheda film
Un gran bel film, altroché, a dispetto dei suoi momenti altamente noiosi e di una sua lunghezza eccessiva.
Ebbene, oggi recensiremo velocemente, speriamo esaustivamente, ivi utilizzando un pleonastico, perfino pletorico, sì, fuori luogo e retorico, forse no, ah, come sono pedante..., insomma, il plurale maiestatico a mo’ d’intestazione di questo film mastodontico, maestoso, forse semplicemente esilarante in toto, quasi metaforicamente “festoso” e variopinto in modo sia filmico che giocondo, Piume di struzzo. Ovverosia, ribadiamo a scanso di pochade, no, questa è una commedia degli equivoci, una farsa memorabile come la vita di molti di voi, eh eh, il sottovalutato, quasi mai da nessuno citato, bistrattato o addirittura misconosciuto ai più, specialmente alle nuove generazioni, come detto, assai divertente, molto spassoso, a tratti ridondante volutamente come la mia aggettivazione ripetuta ed estenuante, alla pari della mia compiaciuta, perché no, prosa sovraccarica e insopportabile, eppur, spero, strampalata e guascona profumata di letterario “entertainment” (im)puro, Piume di struzzo (The Birdcage), opus firmato dal compianto Mike Nichols (Il laureato, Closer). Ça va sans dire(e il francese, in tal caso, è d’uopo), rifacimento in salsa hollywoodiana, del famoso Il vizietto di Édouard Molinaro che fu tratto dall’altrettanto celebre pièce teatrale ad opera di Jean Poiret, intitolata La Cage aux Folles. Per tale suo adattamento e, diciamo, mutuazione, Nichols apportò molte licenze, spostò l’ambientazione a South Beach, in Florida, ovviamente, non usò Ugo Tognazzi a rifare sé stesso, in quanto morto nel ‘90, cioè prima di tale remake, neppure il defunto, però nel 2007, quindi all’epoca ancor in vita, Michel Serrault in un cammeo tributo, così come va invece di moda oggigiorno, e affidò la sceneggiatura ad Elaine May, sua ex abituale collaboratrice. Inoltre, s’avvalse d’un comparto tecnico di lussuria, no, di lusso, consegnando, in modo lungimirante, la direzione della fotografia all’attuale tre volte premio Oscar Emmanuel Lubezki. Designandolo, per l’occasione, cinematographer in tempi quindi non sospetti, come si suol dire. Appioppandovi, testualmente e sottostante, la sinossi e la concisa nota critica dal Morandini dizionario dei film: «In procinto di sposarsi con la figlia di un senatore reazionario, chiede al padre omosessuale – e convivente da oltre vent’anni con il suo compagno – di apparire eterosessuale. Crisi in famiglia. Non è il remake di Il vizietto (1978) di Molinaro, perché all’origine c’è un testo teatrale: di Shakespeare o di “Jean Poiret”, ma è verosimile che M. Nichols & Co. abbiano visto e studiato il film. Pur molto bravi, R. Williams e N. Lane non reggono il confronto con Tognazzi e Serrault, ma è indiscutibile che La cage aux folles è una macchina teatrale perfetta e indistruttibile anche quando, come ha fatto Elaine May nella sua sceneggiatura, si porta in primo piano il personaggio del futuro suocero (Hackman). Fra i caratteristi fa macchia H. Azaria, nei panni del domestico Agador».
Stando dunque all’ironico Morandini, Piume di struzzo non è, come invece da noi sopra scrittovi, Il vizietto hollywoodiano. Non diciamo stronzate. È vero, le differenze sono molte ma anche no e financo ciò, dapprima, asserimmo. Eppur è innegabile che Piume di struzzo sia sostanzialmente identico al modello ispiratore, se preferite, originale ed originario, e ne divenne una variazione tematica semplicemente differenziata e aggiornata, anzi, americanizzata. A tratti lento e con digressioni superflue, verboso e con molte battone, no, battute che non vanno doverosamente a sega, no, a segno, prolisso ed artefatto, dalla comicità “telecomandata”, diciamo più propriamente programmatica, Piume di struzzo, tralasciandone gli enunciati difetti or ora accennativi, malgrado le sue lunghe due ore di durata circa, non annoia quasi mai e, ovviamente, nella sua seconda parte, coincidente all’incontro imbarazzante fra le due famiglie agli antipodi, finalmente acquisisce il giusto ritmo scoppiettante, ravvivandosi e perfino rianimando noi, spettatori, sin a questo punto, se non addormentatici, perlomeno indispettiti, vagamente annoiati e turbati non da Williams-Lane & company assai gai, bensì da una narrazione, sì, delicata, sensibile e garbata, altresì, rimarchiamo ancora, sfilacciata. Senonché, l’incipit soporifero turbinosamente e gustosamente declina, anzi, ascende e carbura radiosamente in un finale travolgente da chapeau, champagne, felicitazioni, vera ilarità, felicità, applausi a scena aperta e magnifica, cinematografica solarità da tutto è “pene” quel che finisce in c... lo, no, pardon, tutto è bene quel che finisce, senza pregiudizi di sorca, no, sorta, in una scopata, in una scorpacciata, in un’amabile buffonata o forse in questa faloticata che sa di pantomimica cafonata.
di Stefano Falotico
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