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Idolo infranto

Regia di Carol Reed vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Idolo infranto

di (spopola) 1726792
8 stelle

Tratto da un racconto di Graham Greene, il film si conferma ancora oggi come un piccolo capolavoro ricco di annotazioni psicologicamente pregnanti sullo studio e l’analisi della psiche infantile, costruito con perizia dentro a una messa in scena molto sobria e priva di sbavature che lo rendono un thriller superbo di forte impatto emotivo.

Io sono un artigiano… per me fare un film è certamente un atto di creatività, ma è anche un mestiere. (Carol Reed)

 

Idolo infranto (1948), è il primo risultato tutto in positivo, della feconda collaborazione fra il regista Carol Reed e lo scrittore Graham Greene a cui faranno seguito nel 1949 Il terzo uomo e successivamente (circa 10 anni dopo) Il nostro agente all’Avana (1960) che con la sua poco più che corretta rappresentazione delle cose (parlo soprattutto della forma visiva) mostra già (confermandoli) i preoccupanti segni di quella decadenza anche ispirativa che dopo diventerà inarrestabile.

Un incontro veramente fortunato e fruttuosissimo soprattutto per quel che riguarda i primi due titoli dunque, ben raccontato con dovizia di particolari da Robert Moss nella sua monografia The Film of Carol Reed (Macmillan, Basingstoke-London, 1987) e reso possibile dal produttore Alexander Korda che fu basilare nel contribuire a far sì che il contatto diventasse un solido rapporto costruttivo umano e di lavoro, forse proprio valutando la stretta connessione tematica che avvertiva esistere fra i due (il regista aveva realizzato immediatamente prima, Il fuggiasco, in effetti l’adattamento cinematografico di un racconto di uno scrittore meno famoso e importante come F.L.Green, ma considerato da più parti  un eccellente “Greene apocrifo”,  Emanuela Martini compresa, che nella sua imprescindibile Storia del cinema inglese pubblicata nel 1992 per i caratteri della Marsilio, parla così di questa pellicola, annoverabile ancora oggi fra i più interessanti esiti conseguiti dal regista: le implicazioni sotterranee che si ritrovano ne “Il fuggiasco” sono molto vicine a quelle dei romanzi di Greene. Non solo l’ambiguità delle scelte morali e di giustizia, ma anche il riflesso delle azioni individuali sui destini altrui, il cinismo, la struttura poliziesca, il progressivo e inappellabile spostamento del protagonista, il tema dominante del tradimento – o meglio del tradimento ‘innocente’ - , in parte involontario e in parte dettato da propositi superiori).

Probabilmente furono proprio queste affinità di vedute (oltre al fatto che entrambi durante la guerra avevano fattivamente collaborato con i servizi segreti del controspionaggio britannico) a creare una immediata empatia fra i due uomini e a dare vita a questo sodalizio (fondamentale per la rinascita del cinema inglese della seconda metà del secolo scorso) che destreggiandosi con perizia nei meandri dei conflitti morali della coscienza, si impegnò alacremente nella costruzione di un pugno di opere che pur non essendo “capolavori” in assoluto - fatta eccezione forse per Il terzo uomo che ha però meriti ascrivibili in parte alla presenza e al contributo di Orson Welles – rimangono tappe importanti nella storia della settima arte di quegli anni, così corrispondenti come sono a una realtà in cui ben si riflettono i fermenti e i dilemmi resi ancora più aspri da un particolare periodo di transizione e di cambiamenti come quello di ogni dopoguerra, per più di una ragione angosciante e tutt’altro che rassicurante, in cui anche la normalità comportamentale delle figure poste in primo piano, viene a trovarsi coinvolta nella complessità di conflitti interiori derivanti da situazioni molto complicate e contorte collocate in ambientazioni familiari e sociali a metà strada fra la normale quotidianità dei fatti e l’esotismo di certe avventure che prendono la via dell’intrigo, fra complotti, cospirazioni e opportunismi.

 

Tratto dal racconto di Graham Greene The Basement Room (Lo scantinato) del 1935 (poi riproposto e ripubblicato a due anni di distanza dall’uscita del film che lui stesso aveva sceneggiato nella più ampliata forma del romanzo), Idolo infranto (da pochi mesi disponibile in DVD grazie a Vieri Razzini e a Flamingo Video di Teodora), si conferma anche a una rivisitazione aggiornata come un piccolo capolavoro ricco di annotazioni sottili e psicologicamente pregnanti di studio e analisi della psiche infantile, costruito con fluidità e perizia dentro a una messa in scena molto sobria e priva di sbavature che lo rendono un thriller superbo di forte impatto emotivo.

Visto il risultato, può persino sorprendere il sapere che il progetto all’inizio aveva invece suscitato  più di una perplessità proprio nello scrittore, che riteneva non adeguatamente interessante il tema e gli sviluppi narrativi di un racconto che lui valutava davvero poco cinematografico, incentrato su una storia che considerava, al di là dei rapporti che si venivano a creare fra i vari personaggi, quella troppo semplicistica di un assassinio commesso dal più simpatico dei personaggi resa ancor più zoppicante da un finale non sufficientemente positivo per lo schermo che avrebbe potuto tenere lontano lo spettatore medio e non ripagare gli sforzi nemmeno in termini economici.  Coinvolto però poi totalmente dal produttore nel progetto (e anche per la fiducia che riponeva nelle qualità di un regista da lui giudicato già in precedenza capace di far muovere la macchina da presa con una specie di svelta e scaltra disinvolta indipendenza dai dialoghi dell’azione), condivise con Reed alcune importanti variazioni al testo che lo portarono ad accettare la sfida riadattando in parte e senza troppe esitazioni, lo scritto originale per meglio piegarlo alle differenti esigenze del mezzo cinematografico, modificandolo sostanzialmente proprio in fase di sceneggiatura in un punto cruciale come quello del “delitto”, così da arrivare persino a proporre (come vedremo in seguito)  un “presunto” anche se relativo lieto fine, che pur cambiando concretamente le responsabilità individuali, più che gli avvenimenti, lasciava però intatta la pessimistica negatività dell’originale in relazione al trauma subito dal bambino.

Lo sviluppo narrativo, molto vicino a un congegno a orologeria come richiede ogni inchiesta poliziesca che si rispetti, è pieno di suspense, con un  pathos in crescendo decisamente ansiogeno che sembra voler esplodere da un momento all’altro, ed è agilmente sostenuto da una regia lineare ma particolarmente inventiva e visivamente molto “movimentata”, costruita utilizzando ben 1040 differenti inquadrature e altrettanti raccordi di montaggio, il tutto realizzato – salvo rarissime eccezioni – tenendo quasi esclusivamente conto anche per le angolazioni di ripresa, del punto di vista  “osservativo” di un bambino impressionabile e troppo solo (il vero  protagonista di una storia piena di sotterfugi e di bugie, che a un certo punto sembra davvero prendergli la mano fino quasi a schiacciarlo) che vede e interpreta il mondo degli adulti come una realtà  complicata, contorta e incomprensibile, quasi labirintica e soprattutto disturbante in cui è per lui sempre più difficile districarsi per far uscire indenne il suo “idolo da difendere a oltranza” dalle panie di una strada senza sbocco, ben metaforizzata dai piani soggettivi e le inquadrature inclinate della cinepresa di insolita forza e di grande suggestione.

La verità è un bene così prezioso che spesso occorre proteggerla dietro una coltre di bugie: si potrebbe dunque proprio partire da questa frase che Winston Churchill pronunciò in ben altro contesto, per cominciare ad entrare nel vivo di un film che come ho già accennato sopra, è costruito intorno a una vera e propria ragnatela di false affermazioni, o meglio di bugie (che come ben sappiamo, hanno per antonomasia “le gambe corte” e non sono quasi mai salvifiche) che a volte si è indotti a inventare e raccontare anche con variazioni estemporanee per adeguarle al susseguirsi degli eventi, e mantenerne in piedi l’impianto generale pur fra insanabili contraddizioni, con l’intento di creare (im)possibili alibi e raggiungere così l’obiettivo di salvare in corner qualcosa o qualcuno che ci sta particolarmente a cuore indipendentemente da ciò che immaginiamo possa avere fatto, e toglierlo così da una indifendibile posizione di “sospetto” evitandogli guai e complicazioni anche giudiziarie, ma che alla fine non faranno altro che invischiarlo sempre più dentro un ginepraio di incoerenze talmente insostenibili da rendere disastroso l’esito rischiando di conseguenza di produrre un effetto esattamente contrario, se non ci fosse per fortuna il caso a mettersi di mezzo quando ormai tutto sembrava essere definitivamente perduto.

 

La storia è quella del piccolo Philippe, figlio di un non meglio identificato ambasciatore a Londra che  il padre spesso assente ha affidato alle cure del maggiordomo Herbert Baines e della sua dittatoriale, scorbutica e gelosissima moglie.

Per il ragazzo lasciato davvero troppo solo in un  periodo particolarissimo come quello dell’adolescenza, l’affettuoso maggiordomo che è anche il suo unico compagno di giochi, è dunque un punto di riferimento certo che diventa un vero e proprio idolo quasi da venerare.

Philippe ascolta infatti a bocca aperta le mirabolanti storie decisamente affascinanti per un bambino curioso e ancora molto ingenuo che prende per oro colato tutto ciò che l’uomo gli racconta  parlandogli del suo presunto “avventuroso” passato, ed è evidente che non può che diventare per lui un eroe da rispettare e proteggere…. Quello che non conosce però (e che scoprirà quasi casualmente) è  che l’uomo ha una tresca sentimentale con una ragazza francese e che per lei vorrebbe addirittura lasciare la famiglia. Sarà di conseguenza proprio il ragazzo che rivelerà senza volerlo alla moglie tradita (proprio perché frastornato e posto in inganno dalla capacità manipolatrice della donna), l’esistenza di quella relazione adulterina con una dattilografa più giovane e avvenente.

Il dramma si consuma così dopo ulteriori sotterfugi, quando la donna gelosa e inviperita, affronta Herbert colto quasi in flagranza di reato,  e in un accesso d’ira nel corso di un ultimo litigio lo accusa con una veemenza così folle da farla scivolare per le scale, con una caduta disastrosa e dall’esito mortale.

Il bambino che dall’altra stanza ha sentito il litigio, l’urlo e il tonfo ma ha potuto percepire i fatti in modo parziale spiando dalle finestre esterne mentre scende precipitosamente per le scale antincendio per non perdersi la scena (una delle migliori sequenze di tutta la pellicola), si convince  che sia stato il maggiordomo ad uccidere la moglie, ma decide anche che deve riuscire a salvare l’amico ad ogni costo… e così farà all’arrivo della polizia,  raccontando storie su storie finalizzate a difendere il suo idolo che già comincia a sgretolarsi, e a inventargli alibi un po’ astrusi che sortiscono invece l’effetto contrario creando confusione e grossi equivoci che rischiano di inguaiare invece definitivamente il maggiordomo, in un crescendo di tensione che nel finale diventa particolarmente frenetico e che grazie alla perfetta sceneggiatura di Greene e all’abilità del regista nel trasformarla in immagini concrete, assume il senso di una profonda riflessione sui labili confini esistenti fra verità e menzogna.

Come si può ben constatare da questo breve riassunto della storia, sono dunque proprio le menzogne, declinate in varie direzioni, a costituire uno dei principali fili conduttori del racconto. Riepilogando infatti, sono false affermazioni tutte le controproducenti  invenzioni messe in  piedi dal ragazzo per difendere l’amico, esattamente come è una realtà fittiziamente artificiosa quella che Baines gli ha propinato facendosi protagonista negli anni della sua giovinezza di un inesistente passato avventuroso in Africa, così come sono pesantemente adulterate le parole attraverso le quali la signora Baines riesce a far confessare a Philippe ciò che lui sa della tresca extraconiugale del marito.

Le bugie dunque, che diventano un aggrovigliato gorgo che stringe ed avviluppa con le sue avvolgenti spire tutti i personaggi, in un movimento sempre più serrato, stringente e concitato, adeguatamente suggerito e metaforizzato (anche visivamente) proprio dalla forma ellitticamente vorticosa dello scalone della casa dell’ambasciatore, attorno al quale si concretizzano tutte le scene chiave della pellicola,  ben cadenzate dal ritmo che Reed  riesce a imprimere loro e che le rendono, circolari e spiraliformi proprio come lo sono di solito le menzogne dalle quali una volta enunciate, è difficilissimo uscirne fuori indenni.

L’altro tema centrale è quello squisitamente greeniano dell’innocenza, del quale proprio il piccolo Philippe ne rappresenta la perfetta incarnazione, un’innocenza  che anche qui, esattamente come accadrà anche in altri ottimi romanzi dello stesso autore, pur in perfetta buonafede crea sempre molti danni (il giovane Pyle per esempio, protagonista de L’americano tranquillo, agente della CIA in Indocina, idealista convinto fino in fondo della bontà morale delle manovre invero poco edificanti a cui sta partecipando in forma  molto attiva, o persino i ragazzi del racconto I distruttori  che finiranno per sfasciare senza una vera e plausibile ragione, la casa di un uomo “buono come il pane” e a sua volta “innocente”che nulla ha fatto mai di male).  Una innocenza dunque che paradossalmente diventa molto più devastante e pericolosa di una deliberata malvagità, che non sarà poi quella che riuscirà davvero a salvare Baines che troverà il riscatto dalle accuse solo grazie a un indizio importante (ben conosciuto dallo spettatore) inizialmente non correttamente valutato dagli investigatori.

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Le abnormi reazioni di un ragazzino di fronte a un mediocre adulto da lui considerato straordinario, sono dunque  analizzate attraverso una trama elegante e raffinata sia nella tecnica (inquadrature ricercate e mai gratuite) che nelle sfumature emotive rese pregnanti da dialoghi mai banali e molto articolati.

Come ho già detto infatti il punto di forza e di originalità della pellicola poggia soprattutto sulla qualità di una sceneggiatura ben costruita e altrettanto magnificamente organizzata che ha avuto il coraggio di variare un punto nodale del racconto di partenza, facendo appunto diventare accidentale una morte che era invece in origine (vedi le dichiarazioni dello scrittore) la conseguenza dell’atto deliberato del marito.  E’ questa non secondaria mutazione l’elemento che se in apparenza sembra voler  contribuire a stemperare un poco la sottile  amarezza tragica di Greene,  in pratica finisce invece per rendere il senso e il messaggio ancor più chiaro e interesssante (e forse persino un poco più inquietantemente disturbante), perché anche se l’uomo si salva, non sarà così che accadrà agli occhi del bambino, che perderà  per sempre l’ammirazione verso Baines l’idolo infranto del titolo, il tutto messo ben in evidenza dalle sottili annotazioni psicologiche a cui ho già accennato che mettono magistralmente in evidenza le sfumature cocenti della delusione, proprio in quel suo garrulo e concitato (persino un po’ disperato) insistere fino all’ultimo (un altro dei momenti clou della pellicola insieme a quelle della sequenza  del gioco a nascondino fra i mobili della casa e del telegramma trasformato dal ragazzo in un aeroplanino di carta che volteggia nell’aria planando poi dolcemente fino ai piedi di un poliziotto) nel gridare per affermare la sua ultima verità senza che  ormai nessuno gli dia più retta considerati i precedenti castelli di invenzioni da lui spacciate per altrettante certezze.

Possiamo concludere dicendo allora che la regia illumina benissimo tutte le zone buie che fanno parte del mondo illusorio dell’infanzia, e che è altrettanto efficace nel sottolineare con una sensibilità invero un po’ barocca, non solo la caduta del mito, ma anche gli sforzi difensivi e protettivi messi inutilmente (e inopinatamente) in atto con caparbia ostinazione.

Gli altri meriti che vanno riconosciuti, sono quelli di un gusto perfetto per l’ambientazione e la misura rigorosa della recitazione. La direzione degli interpreti è infatti eccellente, esattamente come la resa dei singoli: Ralph Richardson è impeccabile nel tratteggiare il suo ‘normale’ maggiordomo innalzato dall’ingenuità fanciullesca a dio, ma non gi è certamente da meno il piccolo e biondo Bobby Henrey , né lo sono le perfette performances di tutti gli altri, da una giovanissima Michèle Morgan a Sonia Dresdel, da Denis O’Dea e Jack Hawkins. Un perfetto lavoro corale di affinità di intenti che  insieme all’efficace uso della cinepresa visualizzata dal morbidissimo e chiaroscurato bianco e nero dell’ottima fotografia del francese George Périnal, fanno del film un saggio di acuta introspezione psicologica.

 

Tornando alla fine a parlare del regista partendo proprio dalla “dichiarazione di intenti” riportata in apertura, credo che mai definizione sia stata più appropriata: un decoroso artigiano purtroppo quasi sempre piegatosi al “mestiere” ma che ha avuto la fortuna di poter emergere con prepotenza sia pure per una brevissima stagione comunque molto fruttuosa, grazie a soggetti giusti e adeguate collaborazioni tecniche e di scrittura di importante levatura che sono state capaci di stimolare la sua creatività inventiva facendolo così uscire dalla mediocrità. Non rimane moltissimo, ma quel “poco” che c’è, vale davvero la pena di essere ricordato: E le stelle stanno a guardare (1939) più che decorosa trasposizione in immagini del romanzo si Cronin, e La via della gloria, lucido documentario sulla guerra, due titoli altrettanto importanti, che si aggiungono a quelli già citati, ovvero, oltre Idolo infranto,  Il fuggiasco (storia della fuga notturna attraverso le strade di Belfast di un rivoluzionario irlandese ferito, realizzata contaminando con l’espressionismo, alcuni dei moduli narrativi del cinema francese d’anteguerra) e Il terzo uomo (girato con forti suggestioni espressioniste nella Vienna semidistrutta dai bombardamenti con un grande Orson Welles che  riuscì a far diventare il personaggio dell’avventuriero Harry Lime uno dei maggiori risultati in assoluto della propria personale galleria di cinici potenti carismaticamente malvagi).

Per il resto, eccezion fatta per la dignitosa riduzione in immagini de Il nostro agente all’Avana ancora sceneggiato da Greene e suffragato dal positivo contributo di un grandioso parterre di interpreti, c’è davvero molto poco da salvare  di un uomo che troppo spesso si è accontentato di adagiarsi su una routine accademica un po’ usurata, dirigendo in Usa e Gran Bretagna soprattutto pasticci spettacolarmente melodrammatici che non presentano alcun altro effettivo merito di rilievo.

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