Regia di Dziga Vertov vedi scheda film
La propaganda politica di Dziga Vertov preferisce alla retorica un approccio documentaristico venato di poesia, che esalta la Rivoluzione d’Ottobre come il prodotto di un’idea che ha cambiato il mondo, trascinando le emozioni individuali e collettive. Questa visione mescola realtà storica e sentimento umano, come in una canzone popolare; e sono infatti tre canti leninisti ad ispirare i tre segmenti in cui è diviso questo film. Nel primo, dedicato a “Mi trovavo in una prigione oscura” Vertov celebra l’avvento del nuovo andandolo a scovare nella vita della gente comune. Le sue immagini sono scorci di quotidianità in cui le istituzioni dell’era moderna si sovrappongono curiosamente ai costumi antichi, ed i mezzi tecnologici si inseriscono come avveniristici prodigi in un ambiente ancora immerso nella cultura rurale. La sua composizione cinematografica riesce a trasformare questo contrasto in una speciale forma di armonia, carica di una straordinaria tensione progressista. Se la tradizione ha determinato il carattere tenace e combattivo dei contadini, l’innovazione ha permesso di unire questa grande forza in un progetto collettivo. Dal passato proviene infatti lo slancio e la motivazione a proseguire nella lotta; viva è la memoria della persona di Lenin, a cui è dedicata la seconda parte (“Noi l’abbiamo amato”), un segmento biografico incentrato sulla figura pubblica del leader. Qui il ritmo della commemorazione ufficiale è interrotto dai toni tenui e lirici della commozione privata, dai momenti genuinamente accorati che punteggiano la rievocazione degli eventi, impedendo al racconto di impennarsi in un inno agiografico. La presentazione delle masse è un’equilibrata alternanza di panoramiche corali e ritratti individuali, come per voler vedere, nella folla che piange, manifesta o marcia, non un’entità granitica ed impersonale, bensì un’anima in cui pulsa, all’unisono, una variegata moltitudine di cuori. La concordia nella diversità è il leitmotiv di quest’opera, che, ne La sesta parte del mondo, compare con maggior vigore, espandendosi in una sorta di dissertazione enciclopedica. L’estetica di Vertov, benché radicata nell’ideologia, non ne propone esplicitamente gli enunciati, ma ne interpreta lo spirito visionario, da utopia universale, che raccoglie tutti gli uomini intorno alla pace, la prosperità e la bellezza, sostenute dalla buona volontà. Nella terza parte, “In una grande città di pietra” le geometriche coreografie delle parate sulla Piazza Rossa sembrano il riassunto concettuale della sintonia e della solidarietà che regnano in tutto il Paese tra i lavoratori, dove i ritmi produttivi si sovrappongono al moto degli elementi naturali. Le festose note finali sull’amicizia, sull’amore, sul senso di appartenenza ad una grande famiglia sono la perfetta chiusa di un’opera che più che un proclama, è un’esortazione a partecipare, perché alla potenza della persuasione preferisce l’allettamento dell’invito. Tre canti su Lenin è infatti una rassegna di tutto ciò in cui è bello credere, ciò che è difficile però possibile, e reca in sé il seducente richiamo di una sfida che sembra già in gran parte vinta.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta