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Dead Man Walking

Regia di Tim Robbins vedi scheda film

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La recensione su Dead Man Walking

di pippus
9 stelle

 

La frase pronunciata dai secondini d'oltre oceano, la stessa del “Miglio Verde” (uomo morto che cammina), nel percorrere gli ultimi passi con il condannato parrebbe piuttosto di cattivo gusto, almeno per noi europei.

Comunque questo è il titolo che il pluripremiato attore/regista ha voluto dare a questa sua messa in scena del romanzo autobiografico di suor Helen Prejan sulla particolare e inconsueta vicenda da quest'ultima vissuta al riguardo. La regia di Tim Robbins (del quale conoscevo solamente le peculiari performance di attore) è, a mio parere, un impeccabile compendio nel proporre gli eventi in modo magistralmente super partes, senza patetismi o sentimentalismi che non siano quelli realisticamente provati dalle parti in causa. Non avendo letto io il romanzo, presumo sia stato aiutato in questo suo risultato dall'attenta analisi e interpretazione del dattiloscritto rinunciando a facili enfatizzazioni oltre ad avvalersi di due pilastri del settore (la sua compagna nella vita Susan Sarandon e il sempre più bravo Sean Penn). La trama, con la non facile decisione di suor Helen di accettare l'incarico di “consigliere spirituale” di Matthew Poncelet, è ormai nota: quindi mi soffermerei piuttosto sull'analisi psicologica dei tre fondamentali “attori” nel corso degli ultimi sei giorni precedenti l'esecuzione: suor Helen, Matt  e i genitori delle vittime di quest'ultimo.

Suor Helen ha una visione naturalmente - all'inizio forse ingenuamente - “cattolica” della questione, per cui, nonostante le remore della sua famiglia e del suo superiore sull'opportunità di accollarsi tale compito, non demorde pur non essendo certa di esserne in grado. Il suo obiettivo sin dal primo giorno non è principalmente, nonostante lo faccia credere pur senza convinzione a Matt, ottenere una revisione del processo – lei stessa non è convinta della sua professata innocenza - ma quantomeno riuscire a far breccia nell'animo di quest'uomo impaurito, il quale appare sì un bullo razzista e ignorante oltreché un brutale assassino, ma, nel contempo, è anche lui vittima di una società che non a tutti ha riservato le stesse opportunità. Questa strategia risulterà vincente non solo per la confessione in extremis ma, conseguentemente, per la gratificazione che ne deriverà a Helen nel constatare il diverso spirito - oltre alle parole proferite in ultimo - con il quale colui che da tutti era considerato un rifiuto della società riuscirà ad affrontare il temuto passo finale. Matt questo forse non lo prevedeva, ma in sei giorni Helen è riuscita, con quello che potremmo definire senza dubbio un intervento full immersion da consumata psicoterapeuta, a entrare in simbiosi con lui offrendogli quel fattore che probabilmente nella sua sciagurata esistenza, a parte sua madre, nessuno gli aveva mai prospettato: un amore sincero, ottenendone una vera e propria palingenesi intesa come profondo rinnovamento del suo spirito.

 

 

La controparte (i genitori delle vittime di Matt) Robbins ce li presenta in modo ottimale, naturale e neutrale come ci aspetteremmo da un qualsiasi genitore sui generis il quale, in simili nefande situazioni e a qualsivoglia latitudine e longitudine (comprese le nostre), "a caldo" esterni comprensibilmente ed esattamente le stesse sensazioni dei genitori di Walter e di quelli della sua ragazza.

E, nella farragine di giudizi che ne derivano non sortiscono effetto alcuno gli esempi riportati sui vari testi sacri, si tratti dell'Antico o del Nuovo Testamento, in quanto, al di là dell'essere credenti o meno e che la pena prevista - a seconda dello Stato - sia la morte o l'ergastolo, i famigliari coinvolti, nonché la pubblica opinione, solitamente puntano il pollice verso comprensibilmente suggestionati dalle efferate modalità, come nel caso in questione, con cui viene perpetrato il crimine. Nelle vesti di genitore, a mia volta, non ho titolo per biasimare tale atteggiamento comprese le perplessità manifestate nei confronti di suor Helen, perplessità che ritengo essere state comunque positive per poter meglio valutare, da parte sua, la globalità del contesto nelle sue varie sfumature sopperendo in tal modo, seppur parzialmente, alla poca esperienza fino a quel momento acquisita. Prendiamo atto del notevole coinvolgimento emotivo nel corso delle sequenze finali con il braccio di Helen proteso verso lo sguardo del sinceramente pentito Matt il quale, poco prima, aveva proferito toccanti parole rivolte ai genitori delle sue vittime. Parole che sortiscono, seppur tardivamente, un qualche effetto che il regista ci lascia intuire con le immagini finali del papà di Walter, prima al cimitero e poi in chiesa con Helen. Non spetta a noi giudicare se la giustizia in questo caso sia stata tale, di certo possiamo prendere atto di trovarci al cospetto di una delle molteplici giustizie terrene, quindi intrinsecamente tutt'altro che infallibile.

 

 

Chiudo rinnovando un plauso all'eccezionale prestazione non solo di Susan Sarandon, ma altresì di Sean Penn – per la prima un Oscar, ma il secondo non sarebbe stato da meno -, una grande pluripremiata regia corroborata da una colonna sonora contenente brani di nomi illustri tra i quali Bruce Springsteen, Johnny Cash, Patti Smith.  Opera pregnante e assolutamente da non perdere.

 

 

 

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