Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Kathryne Bigelow, basandosi su una sceneggiatura dell’ex-marito James Cameron, alla sua quinta regia sceglie di mettere in scena Strange Days (1995) - il cui titolo si rifà ad una canzone dei The Doors -, un noir fantascientifico, che spazia attraverso numerosi generi.
Alla sua uscita fu un disastro finanziario, con appena 8 milioni di incasso a fronte di un budget di 42, che compromise gravemente la carriera successiva della regista, a cui si doveva aggiungere un’accoglienza fredda da parte della critica americana, scossa dal ritratto di una Los Angeles nichilista alla vigilia del nuovo millennio, la cui devastazione, riportava alle immagini degli scontri del 1992, in merito a seguito del pestaggio brutale da parte della polizia ai danni dell’afroamericano Rodney King.
Aver inserito tale opera, all’interno del fondamentale libro sull’ “Interpretazione dei film – Undici capolavori della storia del cinema” curato da Paolo Bertetto, impone una totale riconsiderazione a distanza di oltre due decenni, ponendo Strange Days ad opera cardine degli anni 90’, in grado di allargare l’orizzonte filmico, tramite l’emergere delle nuove tecnologie visive.
Lo spunto sociale di partenza, diviene dal punto di vista della Bigelow, una fattualità su cui imbastire un discorso sullo sguardo e la percezione.
L’occhio umano è il mezzo privilegiato con cui interagire attraverso la realtà empirica. Da processare ed elaborare secondo i propri sensi.
Un film sul vedere, filtrare e sentire l’esistente, facendo coincidere gli occhi dei personaggi, attraverso quello soggettivo della macchina da presa, identificando lo sguardo con i sentimenti e le pulsioni del soggetto in prima persona. Cinema! Quindi, verrebbe da dire.
Eppure Strange Days, pur portando avanti le potenzialità della settima arte, tramite il protagonista Lenny Nero (Ralph Finnies) e la sua numerosa clientela, depriva l’elemento cinema di un fattore decisivo; l’intermediazione tra le immagini create da un terzo e la conseguente elaborazione personale di esse da parte del percettore.
Lo “SQUID” - vettore di memoria artificiale -, interrompe il rapporto di casualità immagine-individuo, a scapito del quale viene sostituita una totale compenetrazione di tra punti di vista, sensazioni e persino emozioni, con l’esperienza del vissuto altrui, ponendo il soggetto fruitore al di fuori del mondo e non più nel mondo. La realtà è ostile, violenta, incomprensibile e pericolosa. L’immagine non assume più di sé alcun compito di scuotere le coscienze, divenendo usa e getta in cui alienarsi. Mera pornografia delle percezioni altrui - spesso costruite ad-hoc per soddisfare la clientela del vasto mercato -, dentro cui alienarsi da una vita sentita grama.
Pura assuefazione da spazzatura tecnologica, come si conviene ai canoni della corrente fantascientifica del cyberpunk, dove la stratificazione urbana, lascia dietro di sé uno squallore, in cui i palliativi ne amplificano solo la solitudine. Da ciò se ne ricava un radicale cambio di paradigma nella poetica della Bigelow, che nei film precedenti, aveva uno sguardo positivo in merito alle pulsioni interiori dell’essere umano, capaci di porlo come outsider in un contesto sociale a lui avverso, senza mai rinunciare alla vita, come invece fanno i personaggi di Strange Days.
Lenny oramai non dà alcuna importanza agli avvenimenti del mondo, preferendo rifugiarsi all’infinito le sensazioni dei ricordi con l’ex ragazza Faith (Juliette Lewis), invece di accettarne la fine e ricominciare a vivere.
Il discorso di Kathryne Bigelow, trova comunanze, pur non arrivando alle estreme conseguenze presenti in Ghost in the Shell di Mamoru Oshii (1995) - altro capolavoro cyberpunk uscito nel medesimo anno -, dove esperienza sensibile e realtà empirica, si confondevano a tal punto da mostrare un mondo dai contorni indefiniti. A differenza del film nipponico, la regista americana non mette al centro dell’indagine la filosofia dell’immanenza, quanto piuttosto le questioni di attualità socio-politiche presenti all’interno della società americana, percepite con indifferenza - se non con malcelata ostilità - da parte dei bianchi, condividendo le conclusioni di Oshii, sulla necessità urgente di un “risveglio” da parte di Lenny/Motoko, per non farsi annichilire dalle distorte istituzioni sociali, violente e repressive, nella loro distorta furia irrazionale.
Lenny Nero viene costruito su fattezze trasandate ma seducenti, pervase dalla dolente malinconia infusa nello sguardo di Ralph Finnies, che maschera una condizione esistenziale devastata, attraverso una melliflua parlata manipolatoria, volta a vendere quanti più frammenti di vite altrui per il “filo-viaggio”, trascinando i suoi clienti all’interno di tali mondi lisergici-sensoriali, la cui attrazione malsana, viene accentuata dall’uso voyeuristico dei piani sequenza, girati con notevole perizia tecnica.
I personaggi bianchi nel film, appartengono al tempo del passato, sia come vissuto che a livello dialogico nelle forme verbali, risultando del tutto apatici nei confronti del presente. Costantemente immersi in continue pulsioni oscure, da cui origina un male, plasmato da istinti umani inibizioni, fino a diventare esibizionismo vissuto, da dare in pasto ad un pubblico sempre più affamato di morbosità da B-movie, che spostano l’asticella dell’eccesso sempre più oltre, arrivando a lambire il terreno degli snuff-movie. Lenny in tutta la prima parte di film, attraversa le strade militarizzate della metropoli - a causa degli scontri per la morte dell’importante leader afro-americano pro-cambiamento Jeriko One - con aria distratta, intento a discutere dei propri affari al cellulare, lanciando al più sguardi distratti attorno, recependo solo la superficialità distruttiva delle devastazioni. Incapace di comprendere le cause più profonde del disagio, l’unica immagine che Lenny è in grado di elaborare, non può che coincidere con il sè, perdendosi nel continuo flusso dei ricordi oppure inebriandosi alla vista del proprio riflesso negli specchi.
Sono i personaggi di colore, come Jeriko One e soprattutto Mace (Angela Bassett) - amica del protagonista che vive guidando auto -, sono i soldi ad essere fortemente ancorati al tempo presente. La donna vive appieno l’asprezza del mondo reale, rifiutando ogni sterile nichilismo o facile rifugio nelle fantasie dello “SQUID”, lottando continuamente per un futuro rivoluzionario, superiore ai singoli interessi degli individui. Un cambiamento non è più necessario, ma imperativo! La durezza dei modi di porsi di Mace, contribuisce a svegliare dal torpore della mediocrità Lenny, che si limita a guardare il mondo senza vederlo. Questa carica sovversiva, costruita nell’arco filmico con i dovuti tempi, dove i personaggi vengono sbalzati in una matassa umana in continuo movimento caotico; viene disinnescata da un finale consolatorio, dove l’elemento individuale umano si riappropria del proprio ruolo, a scapito della tecnologia, in contrasto con il probabile destino negativo della massa sullo sfondo.
Un frammento di vita, disvela il vero volto delle istituzioni. L’ultimo giorno del vecchio millennio, consegna su un piatto d’argento il detonatore per far scattare il vero cambiamento, tramite la strumentalizzazione della videoregistrazione, consentendo al popolo di poter riappropriarsi della possibilità di scelta tra credere alla capacità delle istituzioni di poter correggere le proprie storture oppure la rivoluzione totale. Il disincanto mostrato, viene rotto dalla scelta moralistica della Bigelow, che evidentemente si sente superiore alla massa, vista come incapace di poter decidere autonomamente senza intermediazioni.
Se il lieto fine è un patto sacro che non si può infrangere nel cinema di Hollywood, secondo quanto detto da Robert Altman nei Protagonisti (1992), comunque si deve rigettare un mero piegarsi da parte della cineasta innanzi all’industria, non essendoci fonti, documenti ed interviste, che riportino pressioni produttive in merito a cambiamenti del finale, a fronte di una regista che ha sempre dichiarato Strage Days come sua opera più personale.
Posto che quindi ci ritroviamo innanzi ad una scelta voluta, in base al suo sentire autoriale; questo neo finale, dissonante con il tono della pellicola, ma fortemente coerente con il percorso intrapreso da Lenny e Mace, non può che essere letto come un ultimo appello ad un sistema a cui viene chiesta la capacità di autoriformarsi, correggendo le proprie storture, approfittando del simbolico passaggio tra il vecchio millennio e nuovo millennio. Richiesta che verrà respinta ed infranta alla luce degli avvenimenti successivi, che confermeranno quanto mai attuale la distopia di Strange Days, nonché il prosieguo da outsiders della successiva carriera di Kathryn Bigelow.
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