Regia di Giorgio Pàstina, Mario Soldati, Luigi Zampa, Aldo Fabrizi vedi scheda film
di Stefano Falotico
Questa mia recensione si “limiterà”, inimitabilmente, a “narrare” dell’episodio La patente, diretto da Luigi Zampa e interpretato, con sublime gagliofferia raffinatissima, dall’immenso Principe della risata, l’inconfondibile e tutt’ora imbattuto Totò, con buona pace dei nostri (tra)passati e odierni emuli che, in verità, non son altro se non delle brutte copie comicarole patetiche del nostro unicissimo e appunto invincibile.
Tutti gli episodi del film son tratti da omonime brevi novelle di Pirandello. Nel nostro caso, trattasi appunto della trasposizione “sintetica” della commedia in due atti “’A patenti”.
Ebbene, un episodio corto corto ma “lungo” come insegna il racconto (im)morale del Luigi nostro caro.
Rosario Chiarchiaro, da anni, vede affibbiarsi la patente, appunto, di iettatore. La gente del paese, appena lui passa per strada, fa gli scongiuri, si tocca e, superstiziosa a morte, lo evita in ogni modo. Ciò, ha un bel peso sulla sua reputazione così quanto influisce negativamente sulla sua vita privata. Declassato, anzi, licenziato in tronco soltanto per “paura del contagio”, “marc(h)iato a vista”, quasi sorvegliato speciale per i cittadini, il povero Rosario, accusato di tale ignominia da appestato, schivato da tutti come fosse un lebbroso, confinato a causa dell’ignoranza, vede così crollare le sue finanze e non ha quasi più nemmanco i soldi per mantenere la famiglia.
Al che, stizzito, si ribella nella maniera più geniale e inaspettata. Poiché la gente bigotta lo accusa, diciamo, di “stregoneria”, ecco allora che si reca dal notaio-“giudice”, sporgendo “querela” affinché ufficialmente, ah ah, gli venga “abbottonata” proprio la benedetta-maledetta patente tanto “vituperata”, quella proprio dello iettatore. Così, con tale nomea messa in “carta da bollo”, annotata, registrata agli atti giudiziari, ah ah, potrà sbarcare il lunario, cioè campar(vi)ci.
Zampa si limite a dirigere un Totò, ripeto, al solito sconfinato per nel ridotto minutaggio, applicando semplicemente la poetica di Pirandello. Un episodio-racconto imperniato attorno appunto ai temi cari al nostro. La società, minata alla base da pregiudizi spesso infondati e discriminanti, si basa sulle apparenze, sulle maschere e sul valore che attribuiamo alle persone che le “indossano”, così come la strepitosa “maschera” di Totò, e mai scelta fu più pertinente e azzeccata per il ruolo grottesco da “infame”, si presta di straordinaria mimica a cui basta un “cenno” della fronte accigliata, l’allungamento del collo oppure la consueta smorfia beffarda e celeberrima per sintetizzare al meglio, senza troppo aggiungervi troppo di parole, non necessarie, il significato che sottende l’opera.
Insomma, basta lui a far di tutta una (r)esistenza la pirandelliana “nefandezza” della vi(s)ta nostra così assurda e incredibile. Totò, solo lui, l’incarnazione vivente e parossistica della stranezza della nostra società, l’occhio che (non) si duole, che “marionetta” si muove come un burattino allo stesso tempo burattinaio.
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