Regia di Martin Campbell vedi scheda film
Annunciato nel 1993 dalla MGM, finanziato dalla Eon, e basato su un racconto inedito di Michael France, non collegato ai componimenti del creatore della saga Ian Fleming (il termine richiamava in ogni caso quello della tenuta giamaicana ove soggiornava), “GoldenEye” dava finalmente l’opportunità al divo del piccolo schermo Pierce Brosnan di vestire lo smoking di James Bond (i contratti vincolanti gli impedirono per anni di ottenere la parte). Si profilava quindi all’orizzonte un’era moderna di spy stories che imponevano un taglio netto col passato.
Brosnan “assorbe” il suo celebre personaggio servendosi di un mix composito di abilità fisica, machismo, astuzia e un sarcasmo squisitamente britannico che conquistò subito le platee. I cambiamenti nel casting malgrado ciò non si fermarono qui. Emblematico fu l’inserimento di un gentil sesso impattante nella vicenda: la killer del KGB sexy e letale (la sua specialità è quella di asfissiare le vittime con una strizzata di gambe durante l’amplesso) Xenia Onatopp (la piccante Famke Janssen), nonché l'hacker sensuale Natalya Simonova (la polacca Izabella Scorupco), nuova fiamma di James; non una “dama accessoria”, bensì una presenza che contribuisce in larga misura nella soluzione delle impasse. La vera star nel roaster delle new entry era comunque la sempre notevole Judi Dench (M), il superiore di Bond e capo dell’MI6 che non avrà freni inibitori nel criticare aspramente i modi dell’agente (lo definisce una reliquia della Guerra Fredda e addirittura… un dinosauro misogino). Il villain di turno (Alec Trevelyan) impersonato da Sean Bean, dal canto suo, sebbene incarni lo stereotipo del terrorista cosacco assetato di atavica vendetta, denota una complessità psicologica oscura, fervente, la quale si allontana dai precedenti, e spesso non persuasivamente tratteggiati, antagonisti. Più macchiettistico invece l’ambiguo nerd Boris (Alan Cumming), dalla caratterizzazione che rasenta il cartoonesco. Questi comprimari venivano selezionati fra attori anglofoni, i quali cercavano di simulare l’accento sovietico (oppure parlavano tutti in inglese anche nei pezzi in cui nessuno di loro ne aveva realmente motivo non essendo, nella finzione, la loro lingua madre; espediente extradiegetico tollerabile). Martin Campbell intanto infonde al quadro una robustezza espositiva stimolante, cinetica, pirotecnica, occasionalmente umoristica (memorabili l’inseguimento col tank attraverso San Pietroburgo e lo scontro sull’enorme radiotelescopio): una direzione che si rivela assai navigata a rappresentare un’ossatura possente, evidenziata accorpando scientemente toni e cromie discrepanti (percepibile l'armonia artistica tra il fotografo Phil Méheux e il montatore Terry Rawlings), i quali accentuano la bellezza dei paesaggi esotici, dalla piovosa Mosca e la cupa Siberia alle rutilanti spiagge cubane (anche se certe volte il background cartolinesco dà la sensazione di essere stato scelto così da edulcorare parentesi romantiche a volte forzate, quantunque mai melensi).
Magari ormai un po' obsoleto nelle tematiche (la micidiale arma elettromagnetica elaborata dai russi da cui prende nome il titolo e la rapina informatica alla banca londinese sembra roba relegata a epoche andate), la pellicola di Campbell offre in abbondanza i topoi degli amanti della saga di 007 (acrobazie quasi inverosimili, oggetti hi-tech fatali, auto di lusso, femmine avvenenti, vodka Martini, set maestosi) coadiuvandoli argutamente in una combinazione elettrizzante di azione e thriller. Ergo, un intrattenimento da pop-corn non esattamente originale ma appagante.
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