Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Un film girato ad altezza di bambino, come in tanta parte del cinema di Abbas Kiarostami e di Amir Naderi. Dalla nouvelle vague iraniana Jafar Panadi riprende anche la struttura narrativa che si sviluppa lungo il filo di un percorso di ricerca, all’inseguimento di un traguardo che, sotto la spinta degli eventi, si allontana sempre più. L’obiettivo da raggiungere, in questa storia, ha le sembianze di un pesciolino rosso dal corpo paffuto e coperto di pinne, che nell’acqua svolazzano come in un balletto. A separare, da questo tenero oggetto del desiderio, la bambina che vorrebbe tanto possederlo, sono i soldi necessari per comprarlo, che sono duri da conquistare, e che si riveleranno ancor più difficili da conservare lungo il breve tragitto dalla casa al negozio. Quella banconota così sfuggente, dalla forma forse troppo complicata per le sue semplici manine, rappresenta quella porzione del mondo dei grandi che, dalla sua prospettiva protetta e limitata, intravede di scorcio, senza riuscire ad afferrarla. Questa incertezza è splendidamente rappresentata, in questo film, dalla luce ambigua di cui la regia sa circondare gli atteggiamenti degli adulti nei confronti della piccola Razieh, caratterizzati da una gentilezza venata di ipocrisia, e da un’attenzione che troppo facilmente devia verso altre, egoistiche priorità. Nessuno le fa davvero del male, e nessuno intende approfittarsi di lei, però non v’è alcuno, tra i personaggi incontrati per la via, che dimostri di preoccuparsi seriamente del suo destino. La sua infanzia è come la polvere che si accumula sulla strada, raccogliendo le scorie delle vicissitudini quotidiane: uno strato che il passo degli adulti attraversa veloce, ma nel quale i bambini, invece, arrancano, e a tratti affondano. La loro posizione è subalterna e marginale, li rende indifesi ed impotenti, e non consente loro di vederci chiaro in una realtà in cui avvertono la presenza di un mistero da scoprire, senza, purtroppo, disporre degli strumenti per poterlo sondare. Là in mezzo, oltre una barriera insormontabile, si trova qualcosa di attraente e proibito, come lo spettacolo degli incantatori di serpenti o il biglietto da 500 toman finito in fondo ad un tombino: entrambi sono, per Razieh, lembi strappati al regno dei no, di ciò che non si deve, e costituiscono, quindi, occasioni nel contempo preziose e terrificanti, capaci di procurare una gioia inattesa, troppo presto soffocata da un profondo senso di colpa. Il sogno di Razieh si arena in mezzo al turbinio della città, fermando la sua corsa in corrispondenza della grata del sotterraneo che ha inghiottito il denaro ottenuto, dopo tante insistenze, dalla mamma: una “gabbia” simbolica, assimilabile alla classica prigione in cui, nelle favole, viene rinchiuso chi ha disobbedito. La bambina vive la morale del Chi troppo vuole nulla stringe nella disperante frustrazione della solitudine, della mancanza di assistenza, di conforto, di comprensione. La sua “punizione” si trascina come un’agonia, in cui cresce, in lei, istante dopo istante, la consapevolezza dell’irrimediabilità della situazione e della gravità dell’errore commesso. Crudele è l’assurda preclusione da una felicità che, a dire il vero, sembra a portata di mano, distante solo pochi centimetri dalla punta delle dita, tale che basterebbe un piccolo aiuto a renderla agevolmente raggiungibile. E forse, in questa immagine, si nasconde il metaforico ritratto di un Paese che, irrazionalmente, frappone alla fioritura delle risorse culturali ed alla realizzazione del progresso politico, l’ostacolo di una miope e masochistica forma di oppressione.
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