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Il palloncino bianco

Regia di Jafar Panahi vedi scheda film

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La recensione su Il palloncino bianco

di Peppe Comune
8 stelle

Teheran, è il ventuno marzo, giorno del capodanno iraniano. Razieh (la brava Aida Mohammadkhani) è una bambina che si intersterdisce nel voler comprare al mercato un pesciolino rosso nonostante ne abbia già una decina nella vasca del giardino di casa. Di fronte alle sua insistenze, spalleggiata dal fratellino Alì, la madre non può fare altro che accontentarla e gli consegna una banconota di cinquecento duman per comprarsi il suo pesciolino rosso. Lungo la strada, Razieh si ferma a guardare lo spettacolo di due saltimbanchi e quando arriva al negozio che gli interessa si accorge di aver perso i soldi. Aiutata da una signora, scopre che la sua banconota è andata a finire dentro un tombino e desolata resta li in attesa di un aiuto.

 

 

Macchina da presa ad altezza bambino ed ecco due occhi traboccanti di lacrime farsi cinema. "Il palloncino bianco" (Premio Camèra d'or a Cannes) dell'esordiente Jafar Panahi (collaboratore di Abbas Kiarostami qui sceneggiatore) è un film di delicata purezza stilistica, semplice e profondo insieme, capace di offrire un milieu urbano di variegata caratterizzazione umana e di lucida vorosimiglianza sociale. Tutto girato in presa diretta, è il resoconto puntuale di un desiderio fanciullesco che intende realizzarsi, girato con garbo, adagiando il narrato attorno al quotidiano brulichio cittadino e seguendo discreto il passo solerte di una coscienza non ancora corrotta. Razieh non vuol capire che il pescilino rosso che desidera è del tutto identico a quelli che già possiede. La sua ostinazione è pari solo alla sua immaginazione, quella che gli fa attribuire al pesciolino che intende comprare qualità che in realtà non possiede, la stessa che non la fa andare dritta all'agognato negozio ma fermare, prima davanti a due domatori di serpenti, e poi davanti a una vetrina colma di dolci, a sfiorare la vita che scorre, a guardare dal basso questi adulti affaccendati per le incombenze di tutti i giorni, gli stessi che le prestono soccorso allorquando il recupero della banconota sembra voler rappresentare la speranza che non vada perduto per sempre il potere salvifico della fantasia. Panahi usa una sola inquadratura : quella fissa sulla piccola Razieh. Cammina con lei, si ferma con lei, la segue con cura certosina inducendo lo spettatore a guardare coi suoi occhi gli spaccati di vita quotidiani che si profilano dinanzi. Ciò che emerge evidente da questa immedesimazione è lo scarto emozionale tra i due fratellini e il mondo adulto, con i grandi che vi si avvicinano con un sentimento che oscilla tra l'altruismo disinteressato e lo stupore disincantato, come i figli di una nazione dalla cultura millenaria ormai ridotti a sudditi di uno Stato che ha mascolinizzato le sua fondamenta. Una denuncia a bassissima intensità, che si insinua sorniona, come la poesia che si limita ad educare alla bellezza, con tutta la forza iconografica di cui è capace di offrire il cinema e nel modo più semplice possibile : rappresentando le idee in movimento. Con la leggerezza di un palloncino che può consentire a un bambino di immaginare di toccare il cielo. Di desiderare sempre altro, con tutta la forza concessa dalla sua santa ingenuità. Questo sembra volerci dire Jafar Panahi, in carcere per aver fatto poesia. Grande cinema.

 

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