Regia di Ettore Scola vedi scheda film
Un film nel complesso deludente, viste le premesse. Le quali erano di un adattamento cinematografico di un testo teatrale di livello di Fassbinder.
Le incongruenze (non so dire se della sceneggiatura teatrale, o dell’adattamento, cui ha partecipato anche il regista Scola), sono davvero tante. 1) Il protagonista non si trova ospite, ma si ritrova a dover pagare il conto, salatissimo, di un albergo: insostenibile, vista la trama sin lì; 2) non c’è nessun motivo per cui la motociclista seduca il protagonista e lo porti all’albergo, visto ciò che accade dopo; 3) idem, è ancor meno credibile che alla fine il protagonista continui a inseguire la misteriosa motociclista (si potrebbe interpretare come un debolezza verso l’attrazione sessuale, certo, ma nel complesso ciò ha ben poca incidenza, se si pensa che lo parta alla morte, per l’eccesso di spensieratezza); 4) non si capisce perché la macchina si rompa, e poi risulti in perfetta salute.
Oltre a ciò ci sono i difetti grossi. I cosiddetti giudici della casa recitano in modo pesante, tropo artato (in particolare l’avvocato, Brasseur, fastidioso nell’eccesso di teatralità). Simon si conferma un grande anche in qui panni un po’ eccessivi cuciti addosso. Sordi si eleva tre spanne sopra tutti: proprio perché recita la parte della persona semplice, immediata, diretta e credibile, e non parti grossolanamente estetizzanti, come quelle dei giudici nei loro banchetti.
Alla fine della fiera, le ambizioni di profondo discorso morale riescono assai pretenziose, eccessive rispetto alla reale riuscita. Un po’ di condanna morale c’è, e questo è il pregio del film: Sordi incarna il solito, tragico modello del piccolo capitalista di successo, ricco amorale e immorale. Una doverosa critica, ma nell’insieme del film ciò non pesa come dovrebbe. Nonostante, va riconosciuto, la pellicola abbia alcune impennate: particolarmente, solo quando si entra nel vivo del processo. Il problema è proprio che il resto del film (specialmente la prima parte, nonché l’ultima, cioè i due terzi) siano noiosi e insignificanti, oltre che ricchi di debolezze. E in mezzo c’è pure la cameriera: la splendida Janet Agren, la cui figura viene vuotamente ammantata di significati filosofici, quando invece, con tutto il rispetto, il suo ruolo, nell’economia complessiva del film, è garantita solo dall’essere una ruspante cameriera che si atteggia a sgualdrina per interesse personale, apparentemente sedotta da un Sordi che anche lì mostra (alla grande, come sempre) i limiti del personaggio squallido che deve mettere in scena (quello sì, vero, con tutti i suoi difetti).
Resta un documento verosimile di eccessi del cerebralismo dello sperimentalismo del secondo dopoguerra, di derivazione teatrale del genere meno riuscito e più costruito, nel senso di cercare in modo inefficace l’effetto sorpresa dell’originalità a tutti i costi.
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