Regia di David Fincher vedi scheda film
A fronte di un'autorialità ormai riconosciuta, le considerazioni su David Fincher hanno subito nel corso del tempo oscillazioni di segno contrario equamente divise tra chi, soprattutto all'inizio della carriera, lo ha considerato come la quintessenza dell'industria hollywoodiana, abile manipolatore d'immagini ed eccellente esecutore, e quelli che invece hanno visto nelle sue qualità tecniche il punto di partenza di un progetto capace di esprimere una riflessione sulla nostra contemporaneità. A pagare dazio è stato dapprima un pedigree più commerciale che artistico, derivato dalla direzione di videoclip musicali per cantanti del calibro di Madonna, Sting e Rolling Stones o di spot televisivi per la Nike e la Coca Cola. In seconda istanza la tendenza a rappresentare la violenza, uno dei temi più ricorrenti del suo cinema, attraverso un divismo e una bellezza estetica capace di esaltare, a detta dei suoi detrattori, una spettacolarità ambigua ed imitativa. Due attributi riveduti e corretti ma a suo tempo sufficienti a far entrare in circolo il sospetto di un cinema fatuo ed utilitaristico che, alla pari di quello di Clint Eastwood (la violenza) e Ridley Scott (estetica da videoclip), ha goduto inizialmente di scarsa fama nei salotti che contano, salvo poi, è il caso di Fincher, riguadagnare posizioni grazie alla legittimazione ottenuta attraverso il web, dove i suoi film vengono accolti e giudicati con le precauzione e i parametri solitamente applicati alle personalità del cinema contemporaneo, a cui di fatto il regista di Denver in questo momento appartiene. Ecco che allora un film come "Seven", opera seconda realizzata nel 1995, appare più di altre adatta a rappresentare le dichiarazioni di intenti e le traiettorie interne a un sistema di riferimento che ha nel cinema di genere, in questo caso la crime story declinata in tutte le sue possibilità (il poliziesco, il thriller, il mystery), una struttura all'interno della quale trovano posto temi e stilemi del cinema fincheriano.
Ma andiamo con ordine e soffermiamoci sulla forma del thriller noir a cui "Seven" aderisce nel rispetto delle convenzioni, raccontando di una corsa contro il tempo per impedire ad un serial killer, John Doe (Kevin Spacey), di portare avanti il suo piano omicida. A dargli la caccia sono una coppia di detective, William Somerset (Morgan Freeman) e David Mills (Brad Pitt), differenti nei caratteri quanto nei metodi investigativi: il primo prossimo alla pensione è disilluso ma riflessivo, pronto ad affidarsi alla ragione che nutre con lo studio e la conoscenza, il secondo, giovane e spaccone, è impulsivo, e affida le sue possibilità di successo all'azione e all'irruenza fisica. Ad unirli è l'indagine portata avanti per scovare l'autore delle uccisioni rituali ispirate ai sette vizi capitali, da cui il titolo, e poi un attaccamento al dovere quasi ascetico, che in qualche modo li differenzia dal resto dei colleghi, superficiali e inetti, come emerge dal distacco di Somerset, rassegnato all'incomprensione che lo circonda, e dalle parole di Mills - "È così che lavorate qui?"- che non perde tempo ad etichettare i colleghi come buoni a nulla.
Se la detection è il volano che fa progredire la vicenda, con rapporti di causa effetto strettissimi - ad ogni omicidio corrisponde un ulteriore tassello del mosaico psicologico dell'avversario - e con la presenza del tempo scandita dalla suddivisione della vicenda in capitoli (ad ogni giorno della settimana corrisponde un vizio capitale e il contrappasso mortale attuato dal killer), "Seven" propone una serie di temi e stilemi ricorrenti nella prima parte della carriera di Fincher, quella che parte da "Alien 3" (1992), esordio all'insegna del cinema seriale e poi si sviluppa dopo il film in argomento, con i successivi "The Game" (1997), terzo elemento di una possibile trilogia "dolorosa", e "Fight Club" (1999), la pellicola che conclude il periodo dell'apprendistato e dell'innocenza, con il regista da lì in poi completamente padrone dei mezzi di produzione e dei meccanismi del successo. Se le prime quattro opere hanno alternato successo misurato e veri e propri flop commerciali, le pellicole seguenti saranno quasi sempre fortunate anche in termini di incassi. In prima fila tra i leitmotiv si segnala una visione apocalittica della vita e della società, corrotta dall'egoismo e dal vizio, e per questo condannata a morte con le sue stesse mani - il finale del film è in questo caso simbolico, con John Doe in versione kamikaze pronto a morire per completare la sua missione di palingesi morale - e poi a cascata le naturali conseguenze: la violenza come ribellione e cambiamento allo stato delle cose (tema sviluppato in "Fight Club"), mancanza di senso, isolamento, colpa e soprattutto un dolore atavico, fisico e psicologico, che non abbandona neanche per un momento i personaggi, anche quando si tratta di annunciare la nascita di un figlio, quello di Tracy (Gwyneth Paltrow), la moglie di Mills, accolto dalla ragazza con un pianto che non lascia ben sperare sul futuro che attende il nascituro, e sottolineato da Somerset con una frase - "come potrei avere un figlio dopo tutto quello che vedo" - alquanto significativa.
Ad interiorizzare una dimensione emotiva in via di disfacimento concorre un sottotesto ricco di materiali psichici, con la pioggia costantemente scrosciante ad enfatizzare la dimensione di purificazione a cui è improntato l'operato di John Doe, e sostitutiva sulla scena di un carattere quasi sempre fuori campo, con i ruoli di Somerset e di Mills a riproporre l'archetipo di un rapporto padre/figlio, presente con le opportune varianti nei primi tre film del regista, e quello di Tracy, sottratto a qualsiasi tipo di carnalità e fortemente materno, a costituire nella sua purezza, l'unica ancora di salvezza per un'umanità - in disarmo - che i due uomini, loro malgrado, sono chiamati a rappresentare nell'arco della storia.
Una dimensione individuale e solipsistica, quella di "Seven", che però non esclude il tempo presente ma anzi lo rispecchia nel cambiamento di prospettive provocato dal crollo del muro di Berlino e dalla fine della Guerra Fredda, quando la mancanza di un nemico (esterno) da combattere costringe la nazione a guardarsi allo specchio e a fare i conti con se stessa. Fincher registra il cambiamento e poi presenta il conto attraverso la figura di John Doe, il nuovo incubo, servito sotto le spoglie dell'uomo qualunque; avversario senza identità (Doe si taglia i polpastrelli per sparire dai database) che attraversa l'esistenza dei due detective mischiandosi tra la gente comune, con i costumi (il fotografo in cerca di scoop) di un quotidiano apparentemente innocuo e invece letale. Ma "Seven" non si ferma qui e mina alla base l'essenza stessa della cultura americana facendo crollare il sistema sotto i colpi di un "predicatore" che riporta alla luce la religione dei padri fondatori ribaltandone gli effetti con un'azione di segno contrario.
Attraverso John Doe, il sermone che aveva fatto da collante nella fase "costituente" diventa lo strumento che toglie la speranza e cancella qualsiasi ipotesi di futuro, spingendo il film verso un finale nerissimo, consumato nell'agghiacciante sequenza finale a suggellare la catastrofe.
Ed è proprio questa catarsi al contrario, con il trionfo del male sul bene, a sconfessare le convenzioni del thriller americano, rivelandoci i prodromi di un'arte che nasce come sintesi tra il cinema americano degli anni 70 e quello mainstream del decennio successivo. Dal primo, "Seven" mutua la capacità di lavorare all'interno del sistema, portando a galla un discorso personale ed artistico che non penalizza la fruibilità, ed in secondo luogo un'essenzialità che riesce a comunicare senza sprecare un metro di pellicola, basti pensare all'utilizzo dello spazio devoluto ai titoli di testa, più che cartellone un vero e proprio rompicapo che rimanda direttamente alla mente ed al corpo dell'assassino, rivelandoci fin da subito informazioni decisive per il rebus che la storia cercherà di risolvere; dal secondo, l'importanza degli aspetti visuali e di composizione dell'immagine, oltre alla costanza della progressione narrativa.
Spuntano così gli immancabili riferimenti: ad Alan J. Pakula ed al suo "Klute"(1971), illuminato dal mitico Gordon Willis, punto di riferimento del direttore di fotografia Darius Khondji per la creazione dei contrasti tra luce e ombra che caratterizzano gli ambienti, e quello esplicito a "Blade Runner" (1982), citato sia attraverso l'inseguimento in cui Mills alle calcagne di Doe si apre la strada saltando da una macchina all'altra, che nel ritratto della città di Los Angeles, mefitica ed astratta come quella di Scott. Emerge infine uno stile strettamente consequenziale allo sviluppo narrativo, con un trionfo di campi medi e piani americani che la dicono lunga sulla voglia di raccontare l'uomo e il suo habitat, e al contempo il desiderio di tracciare le coordinate di un'esistenza senza punti di fuga, immersa negli intestini di una città-prigione come testimonia la quasi totale assenza di panoramiche da e verso il cielo. Una claustrofobia emotiva e materica dal quale si può evadere accentando le conseguenze di un'apertura, - sottolineata dal campo lunghissimo che mostra per la prima volta uno spazio immenso e disabitato - che retrocede gli uomini ad uno stato primordiale.
La chiosa finale, con la voce fuori campo di Somerset che commenta da par suo l'accaduto dicendo "Hemingway ha detto che il mondo è un bel posto e che vale la pena lottare per esso, io condivido solo la seconda parte", restituisce perfettamente il significato di una visione cinematografica che fa pensare e non lascia indifferenti.
(pubblicato su ondacinema/pietre miliari)
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