Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Aria nuova ai vertici di una squadra di provincia costantemente sull’orlo della retrocessione in serie B: il vecchio dirigente che ha mandato avanti la baracca per decenni, dando l’anima e rischiando la rovina economica, passa la mano a un giovane industriale rampante; ma il campionato inizia in modo disastroso. Probabilmente il miglior film italiano di argomento sportivo, diretto da Avati quando ancora sapeva essere cattivo. Tognazzi interpreta un tipo umano ben noto agli annali del calcio, che nel passato recente si è incarnato in personaggi pittoreschi (i Massimino, i Rozzi, gli Anconetani) e che ormai è quasi scomparso: il presidente-padrone abituato a barcamenarsi ai limiti della legalità, e se necessario anche oltre, pur di mantenere a galla la propria creatura; il suo Walter Ferroni è un uomo che ha sempre anteposto il lavoro alla famiglia e che ha pagato le sue scelte con la solitudine, disprezzato dalla figlia e divorato da un amore impossibile per la bellissima moglie del suo successore. Ma intorno a lui c’è un affresco tristemente credibile già negli anni ’80 e ancora più oggi, quando dovrebbe essere evidente a chiunque che il calcio è diventato qualcosa di molto più vicino alla criminalità organizzata che allo sport: un sottobosco dove si praticano intrallazzi di ogni genere (bilanci truccati, scommesse clandestine, giocatori corrotti, procuratori cinici, legami equivoci con gli ultras, giornalisti cialtroni: ebbene sì, in una scena c’è persino Aldo Biscardi nel ruolo di sé stesso), nel quale spicca l’unica eccezione dell’attaccante diciassettenne ancora incontaminato (ma per quanto?). Una vicenda suggellata dal più amaro dei finali possibili, nonostante il risultato ottenuto sul campo (che induce Mereghetti a vaneggiare di “consolatorio happy ending”): “Hai visto? Abbiamo vinto” “Sì, papa, avete vinto”.
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