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Al lupo al lupo

Regia di Carlo Verdone vedi scheda film

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La recensione su Al lupo al lupo

di lamettrie
8 stelle

Un bel ritratto di famiglia: una famiglia disastrosa, come ce ne sono state tante. Onesto. Profondo.

Un padre egocentrico: in quanto tale, un cattivo padre. Non per forza un padre cattivo; ma un padre non all’altezza del compito che si è dato quando ha scelto di mettere la mondo dei figli.

Splendida la scena finale, con il padre, acclamato artista, che disegna i figli non per come li vede lì, ma per come erano, 30 anni prima, da bambini. Di grande finezza psicologica: anche perché Verdone è escluso dal padre, e si deve aggiungere; al padre infatti interessano il figlio prediletto, quello bravissimo nei risultati artistici (pianista di fama), e la figlia, di cui è innamorato, al di là del fatto che sia bellissima (forse; ma comunque è l’unico elemento della sua prole cui dedicò sempre dei ritratti, da bambina).

La Neri intrepreta bene la parte della classica figa un po’ troia: privilegiata dalla natura nella possibilità di avere uomini ai propri piedi, è sempre insopportabile, con chiunque, proprio per questa sua superbia, viziata tanto dalla natura quanto dal padre.  

Il film è anche sociologicamente interessante, per come ci ricorda certi miti nostrani di fine ‘900: la ricchezza, la cultura. Certi modi borghesi, che implicano l’ostentazione di status symbol di superiorità. Le ville bellissime sembra che parlino da sole, a favore della necessità (del tutto illusoria, in realtà) di invidiare chi le detiene. Pure il talento artistico (del padre scultore affermato, del figlio pianista affermato...) sembra che deponga anch’esso su tale invidiabilità.

Ma la realtà è un’altra, e Verdone ha il merito di mostrarla. Il padre è una brutta persona, anche se artista affermato. Il fratello è una brutta persona, anche se artista affermato.

Non ci sono reali giudizi morali possibili, seguendo le apparenze: tutti hanno pregi e difetti, sebbene non nella stessa misura. Verdone è il fratello più superficiale, ma è vivo. Suo fratello minore, il pianista affermato, interpretato egregiamente da Rubini, è incapace di rapporti affettivi appaganti, e quindi della cosa più importante: infatti è depresso, è triste.

Il film ha poi una risoluzione felice anche su questo versante: il figlio esaltato, il pianista, ha bisogno di sballarsi, di perdere il controllo, pur di avere quella parte enorme di felicità che per tanti versi gli manca: e la ottiene grazie al sesso, che aveva fatto di tutto per allontanare da sé.

Le scene in discoteca sono segno di un cambio generazionale assai rapido (impensabile rispetto al mondo dei genitori dei ragazzi rappresentati, cioè quarant’anni prima): di una superficialità, quanto si vuole (tra l’altro quella musica, la house, dagli anni ’90 è stata terribile); ma segno anche di una libertà che permette di vivere in modo più spontaneo, non coartato come in tanti tempi precedenti.

Verdone è simpaticissimo, e bravissimo, nell’ennesima parte diversa della sua galleria: il gaudente fragile e frustrato, che però trova nell’apparenza, della sicurezza dell’immagine pubblica di un sé vincente, un buon modo per tirare avanti nella vita.  

Tempi nuovi della discoteca come moda giovanile: dell’apparenza spinta, del grottesco, del cattivo gusto, quanto si vuole (il codino di Verdone è “meravigliosamente” squallido, come le sue mossette alla consolle); ma non così tanto inautentici come si è detto da parte della cultura elevata, che a sua volta ha poi spesso proposto modi non meno inautentici, come qui Verdone mostra, dal padre al fratello.

Un film semplice, in apparenza, con certi limiti nei dialoghi; ma assai profondo psicologicamente, oltre che specchio di un’epoca.  

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