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Smoke

Regia di Wayne Wang vedi scheda film

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La recensione su Smoke

di scandoniano
8 stelle

Attorno al negozio di Auggie gira un mondo di varia umanità. Scritto bene e con una regia che ne valorizza le peculiarità, è un piccolo gioiello minimalista coi ritmi giusti per riflettere sulle vicende e soprattutto sulla vita.

A Brooklyn, un gruppo di conoscenti condivide le proprie esistenze, contribuendo al miglioramento delle reciproche vite.

 

 

Un cinema fatto di attimi, in cui anche un soffio in più lo senti. “Smoke” significa fumo, uno dei collanti che legano i protagonisti, attorno ad una storia che, a raggiera, scopre le esistenze di tanta gente comune, che semplicemente abita un luogo contemporaneamente, sfiorandosi quotidianamente, albergando a vario titolo attorno alla tabaccheria di Auggie (Harvey Keitel), un avamposto di socialità, dove parlare di tutto e del suo contrario. Il negozio fa da apripista ad una serie di incontri, di rapporti umani tra persone che intrecciano le proprie anime per poi tornare a viaggiare da sole.

Il film è diviso in capitoli (Paul, Rashid, Ruby, Cyrus, Auggie), i principali protagonisti delle vicende. Aiutato dalle musiche, le atmosfere hanno un’intensità struggente. “Smoke” parla di vite, più in generale di esistenze, di storie semplici dai contenuti complicati. E quando i ritmi latitano è perché sono i ritmi della vita a latitare, tant’è vero che tale assenza di frenesia si distacca da molti altri prodotti cinematografici e finisce per creare empatia con lo spettatore.

 

 

 

Altro elemento importante è il danaro: la somma che il giovane Rashid (o Thomas, per meglio dire) sottrae a dei malviventi, è custodita poi da Paul, che risarcisce Auggie il quale la conferisce a mo’ di indennità nella borsetta di Ruby. È uno, forse il più evidente, dei tanti flussi osmotici che legano un gruppo di perfetti sconosciuti, legati per l’appunto da un’empatia ontologica che è insita nel fatto stesso di appartenere ad uno stesso genere: l’umanità. E non importa se sei bianco, o nero, giovane o anziano, uomo o donna, buono o cattivo, rimani parte integrante del progetto dell’umanità. Sembra volerci comunicare questo il regista Wayne Wong, che traduce in maniera lineare il bel lavoro di scrittura di Paul Auster, che fotografa l’umanità come fa il suo protagonista tutti i giorni alle 8. Lo stile è da film indie, la confezione infarcita di carinerie tipiche di un certo cinema sentimentalista. Finale col botto: la storia di Auggie, che diventerà il racconto di Paul, diventa un film nel film proprio durante i titoli di coda.

Col gemello “Blue in the face” (sequel ricavato da una sua costola) rappresenta un dittico dalla genesi curiosa, ma dalla coerenza autoriale ben evidente.

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