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Lo sguardo di Ulisse

Regia di Theo Anghelopoulos vedi scheda film

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La recensione su Lo sguardo di Ulisse

di sasso67
6 stelle

Anghelopoulos ha ormai più di settant'anni e il sospetto che manchi innanzitutto del dono della sintesi è molto fondato. Il regista greco si conferma un regista dello sguardo, nel senso che osserva quanto la vita (spesso di brutto) offre intorno a lui, come dimostra la bellissima sequenza della statua di Lenin imbarcata su una chiatta nel porto fluviale di Costanza, in Romania. Il suo Ulisse - si chiama A. come Kafka chiamava K. i suoi personaggi - compie un viaggio attraverso i Balcani, per scoprire, nella martoriata Sarajevo del 1995, che pietà l'è morta. Purtroppo, in questo che sarebbe potuto essere un ottimo film, emergono evidenti i difetti, più che i pregi, del cinema di Anghelopoulos: piani sequenza interminabili, carrelli chilometrici, silenzi che talvolta nascondono un'imbarazzante difficoltà di creare dialoghi credibili, la "trovata" registica di far interpretare tutte le donne del film alla stessa attrice (la non irresistibile Morgenstern). Il cinema di Anghelopoulos, ammesso che questo film possa essere preso come paradigma del suo cinema, sembra quello di Tarkovskij portato al parossismo: anche il regista russo era un cultore del piano sequenza, ma riusciva a dare alle sue inquadrature una plasticità di cui, invece, Anghelopoulos non è capace, restando prigioniero di un certo qual schematismo. Altro elemento che accomuna il regista greco a Tarkovskij è quello dell'acqua, che è uno degli elementi meglio sviluppati nello "Sguardo di Ulisse": solo lungo i fiumi si possono varcare le frontiere; soltanto la loro acqua scorre impunemente attraverso Sarajevo, Belgrado, l'Albania, la Grecia, la Macedonia, la Romania, la Bulgaria. "Lo sguardo di Ulisse", in definitiva, è un esperimento riuscito a metà: la sua lunghezza (168 minuti al passo televisivo), la sceneggiatura enfatica di Tonino Guerra (insiste colpevolmente con la nebbia, a più di vent'anni da "Amarcord"), la lentezza dell'insieme evidenziano un manierismo registico che sembra rinchiudere il cinema di Anghelopoulos in un vicolo cieco.

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