Regia di Luc Besson vedi scheda film
Léon è il punto più alto, mai più eguagliato, della cinematografia di Luc Besson, regista transalpino che con questa pellicola raggiunge la sua persoanle consacrazione a livello mondiale subito dopo Nikita, pellicola che invece lo ha fatto conoscere, riscuotendo un notevole successo sia di critica che di pubblico finendo per diventare un vero e proprio Cult.
Luc Besson dopo due gioiellini come Nikita e Léon si è poi piacevolmente lasciato travolgere dall’onda del successo commerciale privilegiando produzioni legate soprattutto all’azione e all’intrattenimento tout court.
Poco male, Léon ormai era già entrato nella storia del cinema.
Pellicola poco catalogabile, Léon è un’opera d’arte (cinematografica) nel quale Besson racconta una storia d’amore con personaggi estremamente stilizzati e l’incontro di due destini sincronici la cui linearità narrativa genera violenza ma anche poesia in una complicità fuori dalle regole che va oltre le normali convenzioni.
L’ossimero molto forte (anche contestato) di Léon è la (possibile) platonica storia d’amore fra una ragazzina di dodici anni e un “ragazzone” di quaranta, in realtà due emarginati entrambi vulnerabili e incapaci di vivere la propria età anagrafica, ma con la tragica consapevolezza che questa “amicizia” prima o poi finirà schiantandosi contro la terribile concretezza del mondo reale.
Léon è un personaggio senza un passato e, specularmente, privo di futuro.
Finito di “fare le pulizie”, come definisce il suo lavoro di killer su commissione, rientra nella sua abitazione squallida e incolore, beve un bicchiere di latte freddo (apparentemente la sua unica fonte di nutrimento) e osserva il mondo da una finestra dedicandosi alle cura di una piantina, l’unico essere vivente che cui ha dei rapporti e che ama perchè, proprio come lui, non ha radici.
Mathilda è una lolita con un accentuato lato oscuro, che ha vissuto e visto troppe cose per essere solo una bambina e che, in quel suo fisico minuto, nasconde un’anima che sta già invecchiando come una crescente vocazione da femme fatale.
Nei suoi occhi immensi e luminosi c’è un senso di disperazione ineluttabile ma in cui non smette di brillare anche la speranza di pretendere l’amore e l’affetto di cui ognuno ha diritto.
Il loro è l’incontro tra due destini in risonanza, entità simbiotiche che intrecciano una relazione di continuo scambio reciproco legati in profondità tra loro dal dolore sofferto da entrambi, dall’indifferenza del mondo che li ha costretti fin dall’infanzia ai margini. Che condividono complicità e convenienza.
A minacciare il loro legame e a rappresentare il male del mondo c’è un agente della DEA, l’Agenzia federale contro il traffico di droga, lui stesso drogato e corrotto e in contatto con le malavita organizzata di New York per il controllo del traffico di eroina della città.
A dargli voce, corpo e anime nera uno strepitoso Gary Oldman che delinea un personaggio delirante e alienato, con una profonda attrazione per la violenza e il sangue e che celebra i suoi omicidi al ritmo di Beethoven perché, secondo lui, Mozart è troppo “leggero” per questo genere di cose.
“Adoro questi brevi momenti di quiete prima della tempesta. Mi riportano sempre a Beethoven. Ti piace Beethoven?! Adesso te lo faccio sentire…”
Ma l’aspetto più inquietante non risiede soltanto nella sua imprevedibilità, nei suoi (violenti) sbalzi di umore o nella sua soddisfazione personale nel fare del male (soprattutto alle persone più deboli) ma piuttosto nella consapevolezza che sia in realtà l’incarnazione di un sistema corrotto che non rende conto a nessuno delle sue azioni, nemmeno alla legge o a un’entità superiore perchè la (vera) malvagità non ha bisogno di avere un senso (o un obiettivo).
In Léon nessuno dei personaggi è positivo, nessuno è un esempio da seguire o incarna gli ideali dell’eroe in lotta contro il male per portare pace e giustizia nel mondo.
Besson crea invece una pellicola pura (!) come una fiaba, crudele e contemporaneamente dolcissima, ma niente affatto infantile, anzi complessa e articolata da risultare quasi surreale, che è uno stereotipo della crudeltà del pazzo mondo degli adulti ma non si limita a un racconto di brutalità e solitudine privo di eccessivi filtri ma, buttando all’aria ogni retorica o perbenismo, ne definisce i generi (thriller, action, dramma sentimentale o fondendo un film d’azione tradizionale con l’opera più d’essai) rendendone i confini estremamente labili.
Besson si è distinto per realizzare un’opera profondamente iconica ma non è stato affatto facile e nel 1994 dovette fare i conti con le critiche che gli vennero mosse per la cruda rappresentazione di una storia d’amore tra un quarantenne e una bambina di dodici anni e sull’ambiguità del loro rapporto.
Da una parte Léon diventa un surrogato di una figura paterna trasformandosi in un punto di riferimento, un insegnante o un mentore per Mathilda mentre dall’altro questi assume il ruolo di simbolo di innocenza e vulnerabilità che faranno poi da catalizzatore per la redenzione del primo ma c’è anche da tenere a mente che Mathilda, pur essendo così giovane, psicologicamente è molto più adulta della sua età e quindi il confine tra cosa è accettabile e cosa non lo è diventa molto più sottile e ambiguo pur trattandosi comunque di un amore platonico.
Léon ha rappresentato il debutto di un’allora quattordicenne (e fenomenale) Natalie Portman e che, almeno inizialmente, venne però considerata ancora troppo giovane e quindi non adatta per la parte, tanto che il regista prese in considerazione anche Liv Tayler, che aveva già diciassette anni, ma cambiò idea dopo averla vista recitare.
Inutile aggiungere che il ruolo di Mathilda la lanciò definitivamente, nonché giovanissima, nel grande cinema mentre sono da lodare anche le interpretazioni di Jean Reno e del solito, straordinario Gary Oldman.
Completano il cast Danny Aiello, Michael Badalucco e Ellen Greene.
VOTO: 8,5
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