Regia di Paul Verhoeven vedi scheda film
Paul Verhoeven è un regista ambiguo, e forse Showgirls ne è l’esempio più evidente. Il film, del ‘ 95, è certamente tra i suoi lavori più detestati e scherniti: se con Basic Istinct, il regista olandese aveva iniziato a far titubare i suoi sostenitori, con il film successivo si “scava” definitivamente la fossa.
Showgirls è sostanzialmente una rilettura - grottesca, eccessiva, kitsch - del classico Eva contro Eva di Joseph Mankiewicz. Verhoeven “sposta” però il plot da Broadway a Las Vegas, e sostituisce le nobili attrici del film del ‘ 50 con umili spogliarelliste e sboccate danzatrici in topless. Ma soprattutto, lo scopo del regista è quello di fare una satira (crudele) del sogno americano e del mito del divismo, utilizzando uno stile che non permetta una netta separazione tra l’oggetto “schernito” e il materiale utilizzato. Il film, come scrive Eric Herderson, non mette “al sicuro” il proprio spettatore, come avviene invece nella satira tradizionale – in cui ci si può sentire moralmente superiori, dall’alto del proprio punto di vista. Il film di Verhoeven sceglie una strada rischiosissima: butta lo spettatore dentro tutto lo squallore dello show-business, senza prenderne le distanze, senza utilizzare catarsi, senza sfruttare la poesia di cui dispone il mezzo cinematografico. Showgirls è un “brutto” film, “ridicolo”, appunto perché racconta qualcosa di altrettanto deprecabile. Non fa arte con la spazzatura, ma la mette in ridicolo utilizzandola. Lo stesso farà, sempre Verhoeven, nel successivo Starship Troopers – Frontiera dallo spazio: un film anti-militarista che utilizza però tutti i mezzi (e l’estetica) del film militarista, e in cui lo scarto è talmente minimo da farsi ambiguo, kitsch, fraintendibile – e, nuovamente, “brutto”. Un film, Showgirls, che, per tematiche e ossessioni, si potrebbe facilmente accostare al recente Il cigno nero, di Darren Aronofski, ma che se ne distanzia proprio per l’ottica attraverso cui i due registi si confrontano con il mondo arrivista dello spettacolo. Se Aronofski si cala, anch’egli, nella struttura “spettacolare” del mondo che, in parte, critica [ anche se preferisce confrontarsi anche coi fantasmi interiori dei suoi personaggi ], Verhoeven la volgarizza, per esprimerne la stessa volgarità che egli denuncia in questo mondo.
Jacques Rivette, in un’intervista rilasciata nel ’98 a Senses of Cinema, definisce addirittura Showgirls «one of the great American films of the last few years.» Certo, la posizione del cineasta francese è decisamente forte, ma forse vuole solo essere un messaggio a tutti coloro che lo hanno liquidato in troppa fretta, e senza concedergli almeno il beneficio del dubbio.
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