Regia di Spike Lee vedi scheda film
Titoli di testa, al solito, folgoranti: una serie di immagini crude, violente e senza scampo incentrate sui corpi morti e insanguinati di giovani vittime della dura legge della strada, straziati e dilaniati dai colpi di arma da fuoco sparati all'impazzata come nel più assurdo dei videogiochi intitolato "Gangsta" dove i ragazzini si divertono e si compiacciono nell'ammazzare il più possibile, dimenticandosi del valore e dell'importanza di una vita umana, e quel che è peggio, identificandosi a tal punto nel ruolo di giocatore da scordarsi che nella realtà tutto è (o dovrebbe) essere diverso. Certo l'ambiente in cui questi ragazzini crescono non aiuta: i clockers la fanno da padroni. Giovani spacciatori al servizio di Rodney (un eccezionale e tragico Delroy Lindo) che promette loro che, lavorando con lui, metteranno da parte un po’ di soldi e potranno comprare una bella casetta per la mamma. Per Rodney "se Dio ha creato qualcosa di meglio del crack o della cocaina, se lo è tenuto per sé: è come il siero della verità!!": anche lui un tempo era clocker ed è divenuto così potente e temuto, dopo essere stato posto di fronte all'alternativa tra l'uccidere o l'essere ucciso. Solo uccidendo si può affermare la propria personalità in quel di Brooklyn: l'omicidio è il passaggio obbligato per chi vuole farsi un nome, costruirsi una vita all'insegna del successo e della ricchezza. Anche per i ragazzi che spacciano sulle panchine il futuro può essere roseo: dopo la naturale e "giusta" gavetta per le strade, dopo essersi sporcati le mani con il sangue delle loro vittime, dopo essere stati l'immagine della popolarità e della fama per tutti i bambini del quartiere nei quali suscitano un fortissimo e pericoloso spirito di emulazione, la vetta della criminalità è a portata di mano. In fondo secondo la loro omologata, semplicistica e già deviata filosofia di vita "un morto può sfuggire a chiunque". E contro questi "bastardi buoni a nulla, schifosi vendimorte" si scatena la rabbia, la disperazione, l'odio e la ribellione dei cittadini onesti dei quartieri popolari, stanchi ed esasperati nel vedere i loro figli, ancora piccoli, conquistati e irrimediabilmente affascinati dalle loro gesta e pronti ad imitarli non appena possibile. Eppure questi clockers non sono costretti a vivere così: un poliziotto di colore del quartiere, molto umano, dice al protagonista Ronnie Strike: "c'è un mondo intero fuori da questo ghetto, non conosci nemmeno la metropolitana". Basta volerlo per uscire da quella giungla dove non c'è altra legge se non quella della morte. Dal romanzo omonimo di Richard Price che ha scritto la tesa e vibrante sceneggiatura insieme a Spike Lee un ineccepibile "racconto realistico corale sulla cultura della droga e della violenza nei ghetti neri, alimentata dai mass media" (Morandini) in cui Spike, al massimo della maturità, sfoggia una rabbia, un dolore e un'amarezza encomiabili. Film straziante con momenti bellissimi e dialoghi di un'autenticità rara, potente come un pugno nello stomaco, disperato come una malattia incurabile che divora progressivamente il corpo e non lascia via di scampo. Solo nel finale, grazie anche all'intervento dell'investigatore Rocco Klein (immenso Keitel, in una delle prove più convincenti della sua carriera, un cattivo tenente giusto e responsabile, severo ma paterno, crudo e determinato, intelligente e consapevole, soprattutto profondo conoscitore della realtà in cui si trova costretto a lavorare, ben deciso a "far quadrare le cose") si vede una luce: su quel treno che prima non aveva mai preso, Ronnie lascia un passato squallido e deplorevole di miseria, sfruttamento, dubbi, paure, impotenza e abbandono per cercare una nuova strada e ricominciare da zero, dimenticandosi di quello che è stato e lasciandosi alle spalle quel deserto umano e violento che per lui è stato Brooklyn. Altro che uno Spike Lee riconciliato ed incerto. Spike si apre alla speranza e al desiderio consapevole che un mondo migliore è possibile: e la luce del sole che tramonta risplende sul futuro del protagonista, in una sequenza conclusiva di "illuminante" lucidità, che, per chi scrive, sarà ripresa anche da Martin Scorsese (non a caso produttore del film, doveva anche dirigerlo) nel finale del suo successivo e altrettanto disperato "Al di là della vita".
Voto: 8
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