Regia di Ron Howard vedi scheda film
La terza missione del programma Apollo, a causa di un incidente al serbatoio dell’ossigeno, venne costretta a rientrare sulla Terra senza avere allunato. Nella sua ricostruzione Ron Howard compie due piccoli miracoli: riuscire a coinvolgere raccontando una tipica storia pensata per lusingare il patriottismo yankee (sebbene la missione fosse obiettivamente fallita, il fatto che i tre astronauti fossero tornati sani e salvi venne salutato come una vittoria) e far tenere il fiato sospeso agli spettatori anche se si sa benissimo che la vicenda ebbe un esito positivo. Tutto è vero e documentato fino alla pignoleria, ma narrato in modo avvincente: ci si appassiona e ci si esalta seguendo la risoluzione dei mille problemi che via via si presentano (problemi anche assurdi, come la diversità di due tipi di filtro e la ricerca di un metodo per adattarli); anzi, da un certo punto in poi i componenti dell’equipaggio diventano semplici esecutori e l’attenzione si concentra sugli sforzi compiuti dagli uomini della base, in primis Ed Harris e Gary Sinise. E sullo sfondo c’è una morale da non trascurare: mai sottovalutare i rischi, mai dare per scontato un successo, mai abbandonarsi alla routine quando si è in situazioni estreme (a meno di un anno dal primo sbarco sulla Luna le missioni Apollo erano già considerate ‘normali’ e l’interesse del pubblico era calato drasticamente); l’esplorazione dello spazio è stata un’impresa quasi eroica per i mezzi dell’epoca, ed è un miracolo che le vittime (come i tre dell’Apollo 7, rievocati all’inizio) siano state così poche. Menzione speciale per Kathleen Quinlan, per l’umanità con cui rende le sue paure (alimentate da un presagio sinistro prima della partenza, la perdita dell’anello matrimoniale durante una doccia), per il suo orgoglio, per la sua ostinata speranza.
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