Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film
Branagh resterà sempre un benemerito per le sue versioni shakespeariane, ma il suo capolavoro lo ha realizzato con questa liberissima rivisitazione dell’Amleto (divisa in un prologo e tre atti) a opera di un gruppo di teatranti disoccupati e depressi. L’idea dell’allestimento si deve a un attore-regista, appena lasciato dalla fidanzata e tampinato dal suo agente (Joan Collins: proprio lei, la perfida Alexis!) perché accetti un ruolo in una trilogia di film di fantascienza (ricorda qualcosa?). Dopo le esilaranti audizioni e la scelta degli interpreti, la scalcinata compagnia raggiunge il villaggio (dall’emblematico nome Hope) dove avrà luogo la recita e dove aspettano la sorella del regista e la costumista-scenografa. Mentre ogni tanto risuona la canzoncina Why must the show go on?, le prove procedono tra continue difficoltà (anche economiche: a un certo punto non ci sono più soldi per l’affitto della sala, una chiesa sconsacrata). A poco a poco vengono fuori i problemi di ciascuno: il ciccione ha un rapporto difficile con la madre e beve troppo, il gay ha da qualche parte un figlio che non vede da anni, la ragazza è rimasta vedova per uno stupido incidente aereo; problemi rispecchiati dal testo di una tragedia che appare “troppo simile alla vita”. A un certo punto sembra che tutto vada a rotoli; ma alla fine, proprio come in una favola di Natale, ogni cosa trova il suo compimento nel modo più giusto. Forse leggermente didascalico nel sottolineare le difficoltà della cultura alta a sopravvivere nel mondo moderno (“i teatri chiudono come le chiese, perché in fondo la gente non li vuole”, dice il protagonista) e l’orgoglio britannico di fronte ai cugini americani (rappresentati dalla produttrice cinematografica, che considera lo spettacolo solo nel suo aspetto economico), il film è però divertentissimo in quasi tutto il suo svolgimento e commovente in un finale che rasserena l’animo: resta uno dei miei preferiti in assoluto.
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