Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
(Im)Perdonabile. (In)Sopportabile. Praticamente innocuo.
ForeMother, l'ancestral'eterno femminino precursore d'ogni cosa.
[In ordine cronologico, immagini tratte dagli inizi, le fini e i climax di: “Pi - π”, 1998 - “Requiem for a Dream”, 2000 - “the Fountain”, 2006 - “the Wrestler”, 2008 - “Black Swan”, 2010 - “Noah”, 2014 - “Mother!”, 2017 (tutti diretti da Aronofski, e da lui scritti - tranne "the Wrestler" e "Black Swan" - e prodotti con la sua società Protozoa Pictures). Poi: non così strampalato il manifesto che cita letteralmente "RoseMary's Baby" (lettura politica, religiosa, psicologica, famigliare), mentre "rivelatoria" la rassomiglianza fra le due locandine che vedono i volti di Natalie Portman (Black Swan) e Jennifer Lawrence (Mother!) entrambi (s)crep(ol)arsi.]
“It's Like GhostWood Here!”, ovvero: the Story of the Little Girl who Lived Down the Lane.
(Alma) “Mother!” (musa, compagna, padrona, domestica, guardiana) di Darren Aronofski è l'ennesima collezione disarmonica di allegoriche cataste di simbol(og)i(e) profondamente superficiali: creazione di una famiglia, di un'opera d'arte, di una (Antico e Nuovo Testamento, dalla Genesi all'Apocalisse, passando per la venuta e la dipartita - entrambe tardive o premature - del Figlio dell'Uomo/Dio) religione: Ed Harris fresco fresco di una costola in meno, Michelle Pfeiffer con un'insopprimibile voglia di mela (cuore/cristallo), un fratello minore e un figlio maggiore, e poi: adoratori, discepoli, consiglieri, pazzi, neofiti, iniziati, novizie, supplici, idolatri, folli, esteti, epicurei, fornicatori, boia, buoni samaritani e soldati: nulla d'interessante, niente d'insorgente nuovo senso.
• Troppi tristi tropi, ovvero: quando il tropo è troppo.
Un amorevolmente mefistofelico e cronicamente saturnino (Rubens ↑ e ↑ Goya) - con tracce abramitiche - Javier Bardem, molto convincente, e una Jennifer Lawrence -{la Cristiana Capotondi (in certe inq.re uguale è: avrebbe potuto interpretare benissimo la back-mother nel prologo o la fore/more-mother nell'epilogo) di HollyWood, musa di David O'Russell prima, di Aronofski ora e, per quanto riguarda il poi, di questo andazzo, il prossimo passo potrebbe/dovrebbe essere verso Guillermo del Toro, Damien Chazelle, Alejandro González Iñárritu, Nicholas Winding Refn e/o Ridley Scott [il loro - attraverso varie sfumature e gradazioni e contestualizzando volta per volta - è il cinema più (dis)pe(n)sante (retorica), (ri)gonfio e bolso dell'oradessoggi], e così il cerchio si chiuderebbe}- dedita alla causa -[suo è il corpo continuamente esposto al desiderio dello spettatore: sottovesti semitrasparenti atte a esporre il telotismo capezzolare e piedi eternamente nudi (manco fosse un hobbit a spasso per la Contea) sull'assito del pavimento a schivare (“Ma è una metafora!” - “Eeehh!”) schegge di vetro, ceramica e legno: la dimora è il suo utero, il suo grembo, la sua culla, la sua casa, e lei vi si muove pelle contro pelle, ne sente il cuore rivelatore pulsare in calando nelle intercapedini dei muri e nelle pareti portanti: ma tutto questo è, per l'appunto, solo e soltanto e solamente superficie, pelle/pellicola, apparenza]-, salvano il film dall'insufficienza: non c'è empatia, né compassione, né commozione, né divertimento, tanto nel senso figurato (intrattiene, ma non tras-porta oltre, in profondità) quanto in quello etimologico del termine: non riesce a distogliere lo sguardo dal proprio ombelicale cervello e volgerlo altrove. Il suo non è un cinema adulto, e da sé non si mette, mai, in discussione: il cordone ombelicale pulsa ancora.
• “La adorano! La capiscono tutta! Ma su ognuno di loro ha un effetto diverso!”, ovvero: il soppalco di Babele.
E il 7° giorno Darren Aronofski (ch'è una versione di Gabriele Muccino con un ego maggiormente spropositato, in cui ad urlare 24/7 non sono i personaggi perché al loro posto lo fanno le immagini: tutte le sue idee soffrono sul nascere di macrosomia fetale, fatale per il risultato finale: la sua cinemegalia partorisce troppo spesso, al limine col sempre, microfilmini sterili e inerti) si riposò.
Fotografia limpida e lattiginosa (la luce dei risvegli mattutini che bagna il corpo cogliendolo risorgere dal giaciglio in cenere, il meriggiare estivo fuori dalla porta, oltre la veranda), sanguigna e carnalmente pastosa (l'essudante messe di corpi e arredi in fiamme) del bracciocchio destro di sempre (sin da “Protozoa”, uno dei primi lavori di Aronofski, un corto/mediometraggio del '93, e tranne che per il film più “estraneo” alla filmografia del regista, “the Wrestler”), Matthew Libatique (il cui altro autore de chevet è l'ultimo Spike Lee, più “Everything is Illuminated”).
Montaggio di Andrew Weisblum (con Aronofski invece proprio da “the Wrestler”, che se lo divide con Wes Anderson), che lavora bene, staccando proprio un momento… - una tazzina cade perché, proprio quando e come, deve cadere - …prima di stancare.
(Non) Musiche di Jóhann Jóhannsson (1969-2018, subentrato al collaboratore di sempre del regista, Clint Mansell) rese(si) assenti, in accordo con Aronofski, delle quali sopravvivono solo deboli eco rimaste nel sound design. A sottotitolare ed evidenziare (per rimanere nello spirito dello stile e della struttura poetica del film) i titoli di coda, “the End of the World”, scritta nel 1962 da Arthur Kent e Sylvia Dee per Skeeter Davis, qui nella versione di Patti Smith.
Von Trier e Haneke sono lontani [come pur'e persino la caldaia di “the Shining” (il romanzo), che qui diviene il serbatoio di emo-petroleoso percolato], la loro programmaticità tanto (a)morale quanto asettica e virulenta s'abbevera ad altra sorgente, e anzi n'è fonte: Aronofski invece ristagna.
Usciti dalla visione di “Mother!” ci si potrebbe domandare, come fanno i personaggi sulla soglia della dimora prima di dirigersi altrove: “Da che parte andare?”, per poi rispondersi: “Tanto è uguale”.
(Im)Perdonabile. (In)Sopportabile. Praticamente innocuo.
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