Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Un horror pieno di inquietanti verità. Di quelle in cui amiamo credere. Perché ci aiutano, dolorosamente, a vivere.
Lo spazio violato. L’universo entra nel vuoto dell’anima per riportarvi la vita e la morte. La casa di un poeta può essere il luogo di un prodigio dormiente. Oppure un mausoleo del ricordo mai spento, che punta al mistero, ma senza aprire la porta al futuro. Lui, il poeta, è il sopravvissuto. Il risorto da un incendio che ha cancellato la sua intera esistenza. Dalla cenere ha potuto salvare solo una pietra, trasparente e fredda come il pensiero che vede nitidamente solo la propria mancanza di contenuto. Attraverso il vetro non si scorge niente altro che una bolla d’aria intrappolata. Prigioniera è rimasta anche lei, la moglie del poeta, che costruisce da sola il sogno di un bambino non ancora concepito, che forse nessuno vuole. I muri della sua stanza trasudano sangue e paura, ogni volta che quell’immagine si affaccia alla mente, in mezzo alle faccende domestiche, nella solitudine che fa da compagnia alla totale assenza di ispirazione. Il tempio dell’arte è spopolato. Sarà per questo che il suo interno è immerso in un silenzio avido e ansioso, in cerca di gente, drammi e follie da risucchiare dentro di sé. La creatività, a ben pensarci, è vorace: si nutre di sacrifici, di annientamenti salvifici, di distruzioni che facciano ripartire il discorso da zero. La novità presuppone la fine, preferibilmente tumultuosa, tale da assomigliare a un travaglio di puerpera. La generazione è un tunnel di orrore, che spalanca una dolorosa finestra sulla realtà, un tutto caotico e sconfinato, che aggredisce la coscienza squarciando le rassicuranti pareti della gestazione. È la carne, con le sue turbinose energie e le sue languide debolezze, a recare lo scompiglio. È lei il mostro policefalo dell’Apocalisse, e tante sono le sue forme, tutte contrarie alla pace. La catarsi non può che essere cruenta e invadente. Si colloca all’opposto dell’intimità, di cui rivolta e mette a nudo le viscere, esponendole al giudizio del mondo. L’apoteosi religiosa, il momento della rivelazione, coincide con il miracolo del dio spogliato, saccheggiato della sua essenza trascendente, ridotto a pura materia da spartirsi fraternamente nel rito liturgico. L’idolo, in questa allucinata condivisione, è lo scrittore non-morto, che, con il suo semplice esserci, distribuisce a tutti un’inesauribile speranza di poter partecipare alla sua onnipotenza, alla sua eternità. Succede tutto in un attimo, quando la scoperta interrompe il sonno dell’attesa messianica, e l’eletto si prepara a divenire la vittima da immolare. Il cielo, questa volta, non c’entra, si tiene lontano, in uno scenario che resta chiuso dentro le pareti di un incubo interamente terreno. La storia, intanto, calpesta ogni cosa e va oltre. Aronofsky ci lascia così, in preda al nostro irrisolto spavento, con un solo conforto: un inizio ammantato di tragedia. Ma pur sempre un inizio.
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