Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Le tracce narrative di questo film seguono in punta di piedi le linee di flusso di quel misterioso campo magnetico che è l’attrazione. Lo spettatore si sente, piano piano, risucchiato dentro l’abbraccio dell’innamoramento: una forza invincibile che prima sequestra i due protagonisti, sottraendoli alle loro rispettive normalità, e poi, lentamente, li sospinge, irresistibilmente, l’una verso l’altro. Il processo è inesorabile, eppure non imbocca mai, in nessun momento, la strada romanzesca della prevedibilità, il sentiero cosparso di indizi premonitori che, in certa letteratura rosa, segnano il fatale cammino delle favole romantiche. La sensazione che qualcosa stia accadendo è, invece, inizialmente affidata alla tiepida constatazione che le consuetudini sono state infrante, per caso, da una piccola iniziativa avventata che si sta inaspettatamente trasformando in un’esperienza, e forse, addirittura, in una storia. Il linguaggio delle parole e dei gesti è quello che pizzica distrattamente la superficie inerte della realtà per sollevarne leggerissimi fiocchi di sorridente imbarazzo, volatili nugoli di pensieri immaturi, talmente impalpabili da spargersi nel minuscolo vento di un sospiro. La relazione tra Robert e Francesca non è un’avventura, perché non ha il carattere dell’azzardo, della sfida, e non è un rapporto occasionale, perché non assomiglia minimamente alle solite opportunità avidamente afferrate e consumate in fretta. Al coraggio si sostituisce una timorosa passione, o un’adorante paura, e all’egoistico desiderio una cieca volontà di abbandono, che non si pone domande, ed in particolare non si interroga, preliminarmente, sull’opportunità di accordare fiducia e sugli eventuali rischi dell’inedita impresa. Il loro incontro è, nella sintassi della vita, la parentesi che si apre al momento giusto, introducendo un inciso che, per la sua natura indipendente, si sottrae alle norme grammaticali del periodo. Per questo motivo rimane, indefinitamente, libero di esprimersi, sopravvivendo, all’interno del racconto principale, come il contenitore di un sottotesto da arricchire, nel tempo, di significati sempre nuovi. Quel luogo nascosto dell’anima è lo scrigno in cui, da quell’istante in poi, Francesca e Robert depositeranno, giorno dopo giorno, i tesori di verità distillati dalle piccole cose quotidiane: i gioielli di una saggezza maturata nel sole – bruciante, perché luminosissimo - del ricordo di quattro giorni indimenticabili. La memoria è la dimensione vincente, nel sentimento, perché è l’unica in grado di resistere alla lontananza, al silenzio, alla stessa morte: la parola scritta, consegnata ai biglietti, alle lettere, ai diari, è, giustamente, la protagonista di questa storia, in cui il lascito è presentato come la forma più intima, preziosa, duratura ed autentica di dono. A prevalere è il senso dell’estremo, inteso come punto culminante dell’essere, oltre il quale non può che spalancarsi lo sconfinato spazio dell’eternità: eternità è tutto ciò che riempie i territori, al di là dell’esistenza visibile, in cui il mondo finito non riesce ad arrivare, come l’apparente vuoto lasciato da un amore scomparso, o da una vita estinta.
I ponti di Madison County fa sgorgare l’intensità delle emozioni proprio dal vortice di energia che ruota intorno ad un’assenza: è infatti la mancanza di ragione, di riferimenti concreti e definibili, ad escludere a priori ogni possibilità di distinzione, lasciando, come unica categoria applicabile, quella dell’assoluto. Che non richiede, per esistere, né il sostegno di un motivo, né l’appiglio di una speranza.
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