Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
La televisione è una gabbia, che cattura la mente di chi guarda, ma imprigiona, soprattutto, la vita di chi sta al di là del teleschermo. Per creare l’illusione occorre essere i primi a crederci; e, d’altronde, la tv non ci seduce, come il cinema, con l’incanto della finzione, bensì con il fascino di una realtà ideale. Per questo motivo apparire non è sufficiente; il personaggio televisivo non è un attore che depone il costume di scena una volta che ha terminato la sua parte. La telecamera ha la pretesa di ritrarre il vero, e di essere invasiva e onnipresente, concedendo, allo spettatore, una vista a 360 gradi, dalla quale nessuna angolazione è esclusa. Per questo l’anchorman deve presentarsi con tutta la sua personalità, declinata in serietà, allegria, collera, preoccupazione, ovvero in tutte quelle situazioni emotive che dimostrano la sua partecipazione al mondo della gente comune e risultano immediatamente contagiose. Da morire è la storia di una bambola di plastica, che ambisce ad essere, per il pubblico, ciò che le donne vorrebbero essere e ciò che gli uomini vorrebbero avere. È il sogno in carne ed ossa che si avvera ogni giorno, e si rinnova, puntualmente, ogni volta che si aziona il telecomando. Questa continuità non ammette deroghe, né cedimenti, e così la ricerca della perfezione si traduce in una immutabilità che congela l’umanità e che quindi, alla lunga, uccide.
Sotto la regia impietosa di Gus Van Sant, la bellezza, il sorriso e l’eleganza di Suzanne Stone Maretto diventano i tratti di un’icona grottesca, ossia di un modello irrigiditosi dentro una glassa dolciastra a base di lacca e smalto: una moderna Monna Lisa che replica, all’infinito, la sua espressione enigmaticamente felice e beffarda.
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