Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Certamente questo cinema può anche non piacere, soprattutto se si insegue una trama forte: invece è come mettere nell’obiettivo della mdp la vita quotidiana come un documentario, con una sceneggiatura libera e con pochi vincoli, dove tutti parlano (arabo e francese) e tutti si ascoltano, tutti si guardano e si desiderano.
È come se Abdellatif Kechiche non abbia ancora staccato la corrente alla macchina da presa dai tempi di Cous cous e La vita di Adele (recensione), come se la festa di gioventù, amore e sesso felice non finisca mai e anzi in questa nuova avventura, lunghissima come le altre, la allarga, la dilata con tanti altri giovani e tante piccole storie corali che si intrecciano e si allontanano senza mai diluire la forza festiva dirompente che porta in sé. Di regole cinematografiche non ce ne sono: Abdellatif Kechiche gira con fantasia e in maniera sfrenata tutto il filmabile, perfino in controluce, quando nella prima sequenza il protagonista Amin arriva in bicicletta e lui lo inquadra davanti al sole sfavillante che domina tutto il film. E poi ancora i giovani che scherzano nell’acqua del mare: schizzi, schiuma e sole, sempre nella mira dell’obiettivo: tutto in controluce, con la silhouette che si stampa sullo schermo, mentre eclissano e liberano il sole in un continuo sfarfallio che ricorda la loro vita lampeggiante. Il sole, il mare, la campagna, la notte fatta di balli scatenati, drink, appuntamenti, amore, tanto amore.
Sulla base di una trama semplice, usata solo come pretesto (Amin, un aspirante sceneggiatore che vive a Parigi, ritorna per l’estate nella sua città natale, una comunità di pescatori del sud della Francia) è un tourbillon felice e spensierato in cui la comunità franco-tunisina perfettamente integrata nella Francia meridionale costiera vive la vita così come viene e chi meglio delle ragazze (bellissime e voluttuose) e dei ragazzi con tutta la vita davanti possono meglio interpretare questa mentalità? Nessuno. E infatti il film è lungo (ancora una volta), è un lunghissimo racconto dei giorni senza pensieri di giovani che godono l’estate in compagnia, pensando solo al presente, tranne appunto Amin che si immagina un futuro di fotografo e sceneggiatore e guarda ciò che succede intorno per trarre ispirazione.
Come sempre (e come fece con Adele) Kechiche non ci risparmia le scene di sesso ma presentandole come un miracolo della natura, come un sogno da cui non svegliarsi, come una naturale conseguenza della Vita, come gioioso incontro tra giovani bellezze. Bellezza che viene dalla loro età e dalla Natura che li circonda.
Certamente questo cinema può anche non piacere, soprattutto se si insegue una trama forte: invece è come mettere nell’obiettivo della mdp la vita quotidiana come un documentario, con una sceneggiatura libera e con pochi vincoli, dove tutti parlano (arabo e francese) e tutti si ascoltano, tutti si guardano e si desiderano, tra il compiacimento delle mamme e zie compiacenti, felici anch’esse della gioia che vedono dipinta sui visi dei loro giovani parenti. E affabulazione, tanta affabulazione, che riguarda le famiglie, il futuro, le avventure amorose. Tutto, a ruota libera.
Voyeurismo? Beh, qualcuno dirà che ci può stare con questo regista per via dei corpi filmati, seminudi o nudi proprio, con i top e le curve sinuose delle ragazze mostrate come manifesto di libertà (Ophélie Bau è bellissima!), ma io ci leggo piuttosto nostalgia per il suo passato di ragazzo e della felicità che può dare la vita spensierata di quando anche noi siamo stati giovani. Per questo il film è lungo e pare, dal titolo, che sia solo il “primo canto”. E immagino chissà quanto materiale il regista ha tagliato, tanto avrà girato!
Ci si diverte a guardare questo film? In verità non lo so, anch’io ho attraversato momenti di impazienza alternati ad altri di interesse, ma ciò nulla toglie alla qualità artistica del film: non sempre tre ore sono concesse. Non mi accorsi del tempo che passava con la storia di Adele, ma in questa occasione invece sì.
Il titolo? Non è tradotto, è proprio così in originale, e in tre lingue: Mektoub è “destino” (così presente nella filosofia mediorentale), il resto è inglese e italiano. Perché la mescolanza, tra lingua e popoli, sia solo una festa!
Viva l’amore.
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