Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Le fotogeniche nudità di due dei protagonisti di “Mektoub, My love - Canto Uno“ mettono in secondo piano il dettaglio più importante della sequenza iniziale che è quello del punto di vista esterno e allo stesso compartecipe di Amin, il quale capitato per caso presso l’abitazione di Ophelie preferisce aspettarne la fine dell’amplesso prima di bussare alla porta come nulla fosse successo. Se le caratteristiche biografiche e materiali di Amin - di origine tunisina e sceneggiatore cinematografico - ne fanno l’ideale alter ego del regista, la scena poc’anzi descritta sembra sintetizzare l’approccio filmico di Abdellaif Kechiche che, ancor di più dei film precedenti, lo vedono testimone compartecipe degli avvenimenti che racconta.
Primo capito di una trilogia di cui è stato già girato il secondo episodio, “Mektoub, My love - Canto Uno” ci introduce nell’esistenza di un gruppo di ragazzi e di ragazze che nella Francia meridionale degli anni 90 celebrano l’estate dividendosi tra le giornate di mare inebriate dalla luce abbacinante della costa marsigliese e le notti in discoteca scandite dal ritmo dei migliori hit dell’epoca. Reduce dal successo de “La vita di Adele”, il regista francese continua a esplorare l’esistenza nella sua età più vitale e spregiudicata, raccontandola attraverso le vicissitudini amoroso sentimentali di un coacervo di personalità unite da un eguale e irresistibile voglia di vivere. Da questo punto di vista “Mektoub, My love Canto Uno” rappresenta un passo in avanti rispetto alla capacità di coinvolgimento dimostrata dal cinema di Kechiche, poiché, anche a costo di risultare eccessivo, il regista organizza il suo film attraverso una serie di veri e propri movimenti, ognuno dei quali caratterizzato da una precisione ambientale (la spiaggia, la discoteca, una camera da letto, il ristorante) e sentimentale (amore, fratellanza, ma anche amicizia e tradimento si scambiano equamente le parti) che, nella mani di Kechiche, si trasformano in un flusso di coscienza capace come un fiume in piena di investire i sensi dello spettatore.
Come nessuno riesce più a fare nel cinema contemporaneo il regista è in grado di sostenere lunghe sessioni di conversazione in cui il ritmo sincopato dei dialoghi e la passionalità degli interpreti producono un movimento interiore che travalica la stasi della scena, permettendo allo spettatore di non sentire il peso di un durata che sfiora le tre ore. Ma non finisce qui, poiché, se è chiaro che nella sensuale e panica messa in scena della vita “Mektoub, My love - Canto Uno” ne sia l’evidente esaltazione, con l’eros vittorioso su thanatos (a questo proposito non ci stupiremo che nel rapporto tra le diverse parti della trilogia la seconda possa essere segnata da sentimenti e atteggiamenti di segno opposto), ciò non toglie che il film sia anche l’affermazione di una libertà artistica che non ha paura di essere fraintesa (durante l’anteprima veneziana la vista ripetuta del fondoschiena della bella Ofelia ha scatenato stizziti paragoni con l’ultimo cinema di Tinto Brass), preferendo rinunciare al proprio coté intellettuale piuttosto che perdersi anche una sola goccia delle vita da cui si abbevera. Capolavoro!
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