Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Difficile convivere con il proprio sguardo, attivo e desiderante, quando il corpo e la testa non riescono ad ascoltarlo e seguirlo, ma sono appesantiti forse da una profondità e una sensibilità che gli altri non posseggono.
Mektoub, My Love, attesissima nuova opera di Abdellatif Kechiche, permette col senno di poi una reinterpretazione del percorso del regista tunisino, che dall'apparente spigliatezza della Schivata era giunto a un livello di drammatizzazione del reale che aveva portato a La vita di Adèle. Con Mektoub è possibile forse intendere quei "buchi di spontaneità" che caratterizzavano la Palma d'Oro di Kechiche: il regista tunisino non era riuscito del tutto a plasmare il reale in modo tale da nascondere l'artificio. Benché quel film rimanga tra le sue vette, con Mektoub le possibilità del regista vengono rilanciate. L'assunzione del punto di vista stavolta è al confine col letterale: le sequenze del nuovo film di Kechiche sono un ping pong fra soggetto e oggetto, i primi piani di Amin e le inquadrature di ciò che lui guarda. Dall'apparentemente ovvio utilizzo di questo approccio di immedesimazione, il film pare voglia far convivere il senso di frustrazione del protagonista (mai espressa, ma evidente) e l'estrema vitalità della sua comitiva estiva. Infatti le tre ore di Mektoub sono un resoconto veloce ma ricco di ellissi mai annunciate di alcuni giorni d'estate di Amin e del suo gruppo di amici a Sète, località balneare del sud della Francia. Noi ci ritroviamo nella stessa condizione di Amin, cioè di chi percepisce quell'energia ebbra e promiscua e non può usufruirne. Allo stesso tempo però il punto di vista è costantemente messo in crisi: non riusciamo mai davvero a penetrare la mente del protagonista (diversamente da La vie d'Adèle), e rimane dunque il mistero del suo sguardo, l'inconsistenza della sua insicurezza, la semplicità della sua finzione (un fuoricampo non fisico). Intanto saltelliamo da una situazione all'altra approcciando la girandola di personaggi (estrema somiglianza, in questo senso, alla Schivata) con apparente superficialità; in realtà il punto di vista (e il voyeurismo) di Amin ci permette, tramite confessioni e confidenze, di tratteggiare un profilo quantomeno affettivo di ogni personaggio, tranne di coloro che non si pronunciano, e si limitano ad esibirsi.
La narrazione diviene liquida, il minutaggio scompare, la realtà non ha più il meccanicismo del percorso di Adèle ma può assumere infiniti vettori d'azione. Il montaggio è sopraffino, se non per alcune ombre di camera: i confronti dei personaggi sono sempre serratissimi e vivaci. L'esibizione di carne e di carnalità è più implicita, ma costante e insistente, un loop di forme che disorienta, e che stona meravigliosamente con la splendida sequenza della nascita dell'agnellino. La musica extra-diegetica rende coerente il processo di drammatizzazione e ne amplifica la valenza teorica. Le situazioni sono quelle riscontrabili nel più classico dei Rohmer, ma meno letterarie e più impreviste, meno incorniciate.
Per Kechiche sembra che nella vita esistano solo sesso e cibo; il resto (forse la bellezza) sta nel ritmo delle immagini, nella successione di volti, negli incroci degli sguardi, nelle luci intermittenti: il montaggio, il Cinema.
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