Regia di Andrew Haigh vedi scheda film
Venezia 74. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Andrew Haigh ha portato in concorso alla 74ma Mostra del Cinema di Venezia l'adattamento del romanzo americano "La ballata di Charley Thompson dello scrittore Willy Vlautin. Al titolo originale "Lean on Pete" il distributore italiano ha preferito, ora, il più laconico "Charley Thompson" per l'uscita nelle sale nostrane, e per una volta posso dire che il titolo di casa è più centrato di quello internazionale che sembra porre troppa enfasi sul ruolo del cavallo in questa storia che ha, invece, per protagonista Charley (Charlie Plummer), adolescente sballottato di qua e di là da un padre irresponsabile alla ricerca dell'ennesimo lavoro.
Il padre di Charley (Travis Fimmel) non ha ancora finito di disfare i bagagli e svuotare gli scatoloni nella nuova bettola in cui si è trasferito col figlio, alla periferia di Portland, che Charley si sveglia al mattino trovandosi in casa il nuovo passatempo dell'uomo: una sventola bionda e rigorosamente sposata per non rischiare complicazioni emotive. Finché la donna prepara la colazione Charley non può fare a meno di pensare alla madre che l'ha lasciato da piccolo, alla zia, unica persona che gli ha dato stabilità nella vita finché il fratello non le ha sbattuto la porta in faccia, e ai guai che la nuova fiamma del padre avrebbe inevitabilmente causato secondo il suo affinato sesto senso. Disilluso dalla vita e costretto a fare da genitore al proprio vecchio, che non ha ancora raggiunto la maturità della vita adulta, Charley si guarda intorno ed intravede la possibilità di passare l'estate guadagnando qualche soldo presso un allevatore di cavalli da corsa, Del (Steve Buscemi), che lo prende sotto la propria ala e lo porta in giro come stalliere del suo ultimo corridore "Lean on Pete", una mezza calzetta delle corse che Bonnie (Chlöe Sevigny), fantina a fine carriera, vorrebbe montare pur di gareggiare ancora, ma che non ha speranza di vittoria se non opportunamente "stimolato".
Charley entra nel giro delle corse, si affeziona a Lean On Pete e vede in Del un riferimento sicuro nel suo incerto futuro, mentre Bonnie le ricorda l'unica figura materna di cui abbia memoria: la zia. I selezionatori del 74° festival hanno portato in laguna svariati lavori di "gioventù bruciate": le ragazzine sfruttate dal malaffare in "Angels wear white" di Vivian Qu, la triste Ely inguaiata da un uomo sposato nel film di Pablo Giorgielli "Invisible", i figli contesi dagli scoppiati protagonisti de "L'affido" di Xavier Lagrande, senza dimenticare il 18enne alle prese con la madre galeotta in "Manuel" di Dario Albertini. L'argomento è, purtroppo, attuale ed il cinema contemporaneo sembra farsene carico per sensibilizzare gli animi. Non fa eccezione il regista britannico che confeziona un dramma asciutto in cui il giovane protagonista sembra capace di accettare il peso delle sconfitte paterne, si libera poi del fardello del genitore ritagliandosi un proprio spazio tra stalle e cavalli, per implodere su stesso quando una gragnuolata di cattive notizie lo mette in ginocchio. Charley scopre a proprie spese la violenza ed il cinismo degli adulti che ne amplificano l'emotività adolescenziale e lo spingono ad intraprendere un lungo viaggio alla ricerca degli affetti perduti. Un viaggio che Haigh costella di ritmi lenti, di monologhi interiori, di personaggi disperati e orribili, di povertà materiale, intellettuale e spirituale. Le immagini dell'America on the road ammorbidiscono il tono che, tuttavia, rimane teso nel delineare il profondo disagio di un ragazzino abbruttito dalla solitudine, dalla fame, dalla mancanza di calore umano ma che nonostante tutto mantiene la sua purezza di fondo. Charlie Thompson si allinea alle altre opere "veneziane" di registi europei (McDonagh, Virzì) che con l'occhio distaccato di chi sta al di fuori, dipingono le piaghe che corrodono la società americana odierna. Ma se McDonagh sceglie un feroce sarcasmo e Virzì opta per un'ironia garbata, Andrew Haigh preferisce affidarsi ad una visione analitica a cui si conforma la recitazione del protagonista praticamente mai sopra le righe nemmeno nei momenti più disperati. Una scelta che in parte preclude l'empatia verso un personaggio che raramente esteriorizza le proprie emozioni ma che dà l'idea di una realtà meschina che Andrew Haigh sembra estrapoli da un trattato sociologico più ancora che da un semplice romanzo di formazione.
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