Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Sette anni dopo il successo di "Amici miei", Mario Monicelli mette nuovamente le mani sul progetto e dirige il secondo atto sugli amici fiorentini e le loro zingarate.
Per parlare del secondo atto di "Amici miei" è necessario partire dal primo capitolo, quello del 1975 scritto da Pietro Germi e (solamente) diretto da Mario Monicelli. Guardando le filmografie di entrambi i registi, si può facilmente notare la similitudine che li portò a percorrere, con successo, la strada della "Commedia all'Italiana", movimento simbolo della nostra cinematografia.
In quel caso la scrittura sapiente e malinconica di Germi, che non potè dirigere il suo film per la prematura scomparsa, si unì all'esperta regia di Mario Monicelli. Non possiamo mai sapere come Germi avrebbe diretto il film, ma guardando alcune opere della sua filmografia, si può supporre che sarebbe potuto essere un film dal tono più leggero, meno ombroso e amaro rispetto a quello di Monicelli. Fatto sta che il film del 1975 resta una delle vette del cinema italiano, che negli anni si è trasformato in un vero e proprio cult anche per le numerose situazioni/scherzi/zingarate che si vedono durante il film.
Sette anni dopo, Mario Monicelli decide di girare un secondo capitolo, sempre con gli stessi attori (tranne per Del Prete/Necchi, sostituito da Montagnani, che nell'opera prima doppia il Perozzi), compreso Phillipe Noiret, il cui personaggio muore alla fine del primo film. A firmare la sceneggiatura è lo stesso Monicelli, insieme a Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli, co-sceneggiatori anche del precedente film.
L'opera ruota sui ricordi degli amici riunitisi davanti la tomba del Perozzi per ricordarlo, ripercorrendo alcuni momenti che tutti, nel bene e nel male, hanno vissuto. Ci sono tutti: il Mascetti, il Melandri, il Necchi e il Sassaroli, dottore di fama internazionale unitosi al gruppo dopo l'incontro nella clinica. Come il primo episodio, l'intera opera è una lunga analessi che insegue gli scherzi del gruppo, compreso lo stesso Perotti, e che ripercorre anche l'alluvione di Firenze del 1966, unico fatto storico riconoscibile. Infine nel finale si torna al presente, con il film che si conclude con la malattia del Mascetti e il ritrovo degli amici.
Devo ammettere che rispetto al precedente film, che considero un capolavoro, questo si è rilevato essere piuttosto insoddisfacente.
Innanzitutto per alcune - sorvolabili, dopotutto, - incongruenze. Ecco un esempio: nel primo film, i quattro conoscono il Sassaroli durante la degenza in clinica, dove il Melandri si innamora della moglie del dottore, con quest'ultimo che con sorpresa di tutti gliela "concede" con tutto il pacchetto: figlie, serva, il cane Birillo e tutto il resto. Successivamente, per aiutare l'amico distrutto e sconsolato per il difficile momento, il Mascetti, il Perozzi e il Necchi accettano l'invito a cena dal Melandri insieme alla moglie e all'onnipresente e tirannico Dott.Sassaroli. Durante la cena, tra prese in giro e battute epiche (cippalippa, su tutte), gli amici comprendono che per salvare il Melandri devono portarlo via da quella casa: tutti e cinque, compreso il Sassaroli, si dirigono alla stazione per la celebre scena degli schiaffi, necessaria per tirare su il morale dell'amico affranto. Qui il Perozzi, ignaro delle persone al finestrino, schiaffeggia anche il figlio, il quale si arrabbia col padre per il comportamento infantile. Il secondo atto si apre con i problemi del Perozzi dopo essere stato lasciato dalla moglie, fatto che lo constringe a stare insieme al figlio tutto il giorno e ad abbandonare i piacere precedenti. Siamo nel 1966, e il figlio del Perozzi frequenta l'elementari (massimo le medie), eppure il Sassaroli, conosciuto molto dopo, appare già con gli amici a giocare a biliardo dal Necchi.
Come ho scritto sopra, l'incongruenza è comunque sorvolabile, anche perché il primo film non dà dei veri e propri riferimenti temporali alle vicende, che ci vengono mostrate infatti come ricordi.
I problemi principali di questo film sono altri. Innanzitutto la ripetitività di alcune situazioni (il tentato suicidio col gas da parte della moglie del Mascetti) e delle battute (come la celebre "che cos'è il genio? è fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione", riferita sempre a un'azione del Necchi).
Quello che però irrimediabilmente sembra mancare, è il ritratto crudele che Germi aveva saputo dare ai suoi personaggi, incapaci di arrendersi alla serietà e all'abitudine, sempre in cerca di avventure nuove (senza durata e senza meta) per fuggire dalla noia del lavoro, della famiglia e dei doveri. Il ritratto degli eterni Peter Pan che si divertono anche al costo di apparire infantili e soli, anche quando la vita si mostra col suo profilo peggiore, la morte. Nel secondo atto si assiste solo a gag in ripetizioni. Per carità, assolutamente geniali, ma sicuramente meno incisive e, alcune, particolarmente cattive, come quella della contorsionista chiusa in valigia e gettata sul camion. La gag fine a se stessa fa ridere, ma non di un sorriso amaro che la commedia all'Italiana (e Monicelli su tutti) era solita suscitare nello spettatore.
La scrittura di Germi, capace come nessun altro di raccontare il volto del paese, dalla Sicilia al Veneto passando appunto per la Toscana, manca tantissimo in questo film. Forse sbaglio io a tenere troppo in considerazione il primo capitolo, ma mi sembra impossibile commentare senza partire (o semplicemente accennare) da quello.
Manca la malinconia, manca la tragedia della vita che si maschera da commedia.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta