Regia di Jordan Peele vedi scheda film
Due giovani americani dei nostri giorni, lui nero e lei bianca, stanno andando in macchina a casa dei genitori di lei, dove la ragazza vuole presentare il nuovo fidanzato alla famiglia. La coppietta è aperta e moderna, come le idee della ragazza e, a sentire lei, anche quelle della sua famiglia sudista. Il giovane, infatti, è preoccupato perché la fidanzata non ha ancora detto ai congiunti che lui è un afroamericano. È la situazione tipizzata da Indovina chi viene a cena? cinquant'anni dopo, con l'ulteriore differenza che il suocero non è il retrivo e burbero personaggio interpretato da Spencer Tracy, ma un obamiano di ferro. E allora dov'è il problema? È che il regista non è il moderato progressista anni Sessanta Stanley Kramer e che la storia non ci parla della fase storica in cui molti americani cominciarono, volenti o nolenti, a superare il razzismo nei confronti dei neri o quanto meno a farci seriamente i conti. Qui il regista è il giovane afroamericano Jordan Peele, nel cui obiettivo è ben presente il problema razziale, ma secondo un'ottica assai diversa da quella adottata da Kramer. Se proprio si volesse parlare di Scappa - Get Out secondo questo schema conosciuto, si potrebbe utilizzare la moderna nozione di razzismo 2.0, dove è ormai saltata la vecchia concezione del bianco che considera il nero un essere inferiore. Il dottor Dean Armitage (il padre della protagonista femminile), infatti, oltre che di Obama, parla al fidanzato della figlia in termini entusiastici di un altro mito della cultura afroamericana, come Jesse Owens, l'uomo che alle Olimpiadi del 1936 umiliò le concezioni razziste di Adolf Hitler in persona. E infatti quello della famiglia Armitage è una sorta di razzismo alla rovescia, che riconosce ai neri una superiorità fisica tanto accentuata da volersi appropriare di quei corpi così forti e resistenti per darne linfa (e organi) ai bianchi. Per riuscire in questo scopo perverso - sintetizzato nel nome di «Progetto Coagula» - la famiglia utilizza come esca la bella figliola e come metodi l'inganno e l'ipnosi.
E qui si inserisce con abilità il mestiere dell'esordiente regista, che si serve del genere horror per descrivere la situazione della gente di colore in America, ancora oggi precaria e pericolante, tanto che il titolo del film potrebbe essere un invito rivolto ad essa, non a caso pronunciato nel primo anno dell'era Trump. Si tratta di un horror non fracassone né con eccessi di gore, anche se il finale una qualche forma di resa dei conti la deve pur riservare: il brivido si insinua nello spettatore attraverso l'inquietudine più che mediante lame e/o motoseghe. Per qualche verso, soprattutto grazie alla rispolveratura dell'ipnosi, si rimanda alla narrazione fantastica di derivazione gotica e romantica, dall'E.T.A. Hoffmann di Mesmerismo (ma anche dell'Uomo della sabbia) ad alcuni racconti di Edgar Allan Poe, intrecciata con la fiaba classica (le repentine ed in parte provvidenziali apparizioni dei cervi), ma senza dimenticare il moderno cinema dell'orrore, che fa sì che non ci si trovi di fronte ad un prodotto desueto.
L'inquietudine creata dal film è la stessa che i neri d'America vivono ogni giorno, come dimostra il prologo dove un giovanotto di colore «si perde» in un apparentemente tranquillo quartiere residenziale per w.a.s.p.: è il rovesciamento di un tòpos cinematografico nel quale è l'ordinario cittadino di pelle bianca ad entrare incautamente nei quartieri malfamati abitati da afroamericani e spesso popolati, almeno nell'immaginario collettivo, da ladri e assassini. È questa inquietudine che pervade l'esistenza dei personaggi di colore, ai quali può, letteralmente, capitare di tutto: e il regista, se il realismo è la nostra pietra miliare, le spara davvero grosse, ma per quanto grosse possano essere le disavventure narrate, nessuno può sostenere che queste vicende allucinanti non possano realmente accadere all'uomo nero. (5 novembre 2018)
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