Regia di Jordan Peele vedi scheda film
Si parte con un referente importante. Un’auto bianca rapisce con violenza un ragazzo afro. Un’auto bianca, come il cane bianco di Samuel Fuller (White Dog, 1982) o quello letterario di Romain Gary (Chien blanc, 1970); un’auto bianca come il Moby Dick di Melville (1851) e il suo epigono spielberghiano (Jaws, 1975); un’auto bianca come altre variazioni melvilliane, dal White Buffalo di J. Lee Thompson (1977) al giudice Holden di Blood Meridian di Cormac McCarthy (1985); quando tutte le auto del terrore o sono nere o sono scure, tranne la Christine rosso fiammante di Stephen King prima (1983) e John Carpenter dopo (1983).
Segue un altro incontro topico del genere: l’incontro con i segni della morte, i presagi di un orrore futuro, ovvero, l’incidente con il cervo. Il corpo in fin di vita dell’animale è, come spesso accade in letteratura e cinema, ma anche nella vita reale, una porta aperta verso l’incognita della morte e la morbosità del cadavere. Lo sguardo indagatore di Daniel Kaluuya dà inizio alla trama tecnicamente orrorifica della pellicola.
Dopodiché, il film indugia in atmosfere tensive efficaci, in sprazzi di Sci-Fi che ricordano i parassiti venuti da un altro pianeta, ma latita in coté horror se non verso la fine della pellicola, durante la fuga/vendetta del protagonista, troppo veloce, troppo rapida, troppo scontata e prevedibile per risultare efficace. Non si mette quindi in discussione il contenuto che, in era Trump, ha un suo altissimo valore civile e politico, bensì la confezione cinematografica finale, una forma narrativa che poteva essere sicuramente giocata meglio, soprattutto nella scelta visiva.
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