Regia di Mark Sandrich vedi scheda film
Cappello a cilindro ha la consistenza di un sogno. Ci si lascia immergere in una finzione ricca ed elegante. Ci si lascia trasportare dalle scaramucce romantiche tra Fred Astaire e Ginger Rogers. Attraverso il più classico dei giochi amorosi, quello degli equivoci, assistiamo alle piccole avventure di tutti i personaggi.
Ma il protagonista rimane immancabilmente lui, il ballo.
Un qualcosa che nasce all’ improvviso come un’ emozione o un fiore.
Qualcosa che parte da uno stato d’ animo e si trasforma in un movimento.
La bellezza del film risiede in questo, nella capacità di trasformare la vita in un qualcosa di artistico (la danza) che sa esprimere, più di mille parole, quello che abbiamo dentro.
Sarebbe fantastico se, anche nella vita reale, potessimo semplicemente metterci a ballare e far diventare il mondo un enorme palcoscenico sul quale esibirci.
Perchè nei momenti in cui Fred Astaire si lascia andare al suo impulso ballerino ogni elemento scenografico diventa un possibile compagno della sua performance.
Ogni piano utilizzabile diventa una probabile pedana per i suoi numeri.
Coreografie di gruppo limitate ma al contempo di indubbia eleganza visiva rallegrano i nostri occhi, una Venezia completamente ricostruita in studio ci lascia leggermente sorridere.
Ma di questo tipo di cinema, di quando veramente i film potevano essere simili ai sogni è rimasto ben poco. Di questa Hollywood si può avere nostalgia, non certamente di quella odierna che ai sogni (ormai finiti) ha sostituito più facili illusioni, regalando allo spettatore svaghi mentali dai quali trarre il proprio immancabile profitto.
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